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giovedì 18 settembre 2008

Una tragedia poco nota: Anatolia addio, di Didò Sotiriu

Tra i libri di quest'estate, alcuni fanno parte di una mia passione che si accordava perfettamente con i luoghi in cui mi trovavo. Si tratta di romanzi di autori greci contemporanei, tra cui Addio Anatolia di Didò Sotiriu, pubblicato dalla benemerita casa editrice Crocetti che ha un'intera collana dedicata alla Grecia. Questo romanzo, uscito in edizione originale nel 1962, è stato il massimo successo editorale del mercato greco. In effetti racconta con lancinante nostalgia l'età dell'oro di una consistente parte della popolazione greca: quando vivevano in Anatolia, per dirla più chiaramente in Turchia, dove erano stanziati da millenni e avevano coabitato con i Turchi per secoli, fino alla "meghali catastrofì" del 1922, in cui tra stragi (soprattutto da parte dei turchi, ma i greci non si comportarono con minore crudeltà quando ne ebbero l'occasione) e esodi dolorosissimi, si ritrovarono a vivere in Grecia, la patria lontana vagheggiata e idealizzata, dove però non fu facilissimo integrarsi.

La Sotiriu, con l'artificio del manoscritto affidatole da un anziano reduce, narra prima l'idilliaca situazione dei greci contadini nella regione di Smirne (la vicenda si svolge a Şirince, villaggio nei dintorni di Selçuk e di Efeso, ed è tuttora famoso per la produzione di vino, oltre a avere l'aspetto tipico di un villaggio greco dell'interno, con chiesa scuola ecc) coltivatori ricchi e felici di olivi, fichi e viti, e la loro vita di lavoro ma anche di feste, di tradizioni, di libertà, in pacifica convivenza con i turchi, assai più poveri e arretrati. E in effetti fa impressione visitare i paesi dove i greci erano insediati, anche molto all'interno della Turchia, fin in Cappadocia, a Trebisonda e oltre, e vedere la bellezza, la grandiosità, la grazia e la raffinatezza delle loro abitazioni, che ora vengono, in parte, restaurate e trasformate per lo più in alberghi. Sono case antiche che parlano di opulenza e di cultura. In un albergo bellissimo di Mustafà Pascià, in Cappadocia, dove il proprietario attuale (un turco dalle mille iniziative e dagli occhi più attenti che abbia mai visto in vita mia) ha avuto la saggezza di non ristrutturare l'edificio, limitandosi a aggiungere bagni alle stanze, ho visto un patetico dattiloscritto in greco, rilegato in plastica con la spirale, in cui era ricostruita una specie di genealogia delle famiglie che abitavano il villaggio prima della cacciata, completa di fotografie abbastanza struggenti. Evidentemente qualche visitatore greco l'aveva regalata al proprietario, che sicuramente non era in grado di leggerla ma la offriva in visione agli ospiti. E capita ogni tanto di imbattersi in qualche pullman carico di greci, solitamente capitanati da un pope, in visita alle chiese in abbandono (ce n'è una molto suggestiva dedicata a S. Elena e S. Costantino a Mustafà Pascià) o ai lughi di culto, come un convento a Istanbul in cui la tradizione vuole che sia conservata la vasca rituale degli imperatori bizantini. Certo dentro ci sarà reducismo, nazionalismo, revanscismo e nostalgismo, ma anche ricerca delle proprie radici familiari, e visto dall'esterno fa un certo effetto, come tutte le volte che si è testimoni di qualcosa che è sparito, in questo caso un pezzo di civiltà morto ma dal cadavere ancora ben conservato. Dall'altra parte in un opuscolo pubblicitario di un villaggio ex greco che è diventato una specie di Portofino per i ricchi smirnioti, a proposito della cacciata dei greci si parlava di "cambio di popolazione".

Il resto della vicenda è la narrazione di una situazione che va di male in peggio. Con il progressivo
indebolimento dell'impero Ottomano si svegliano gli appetiti delle potenze europee che vogliono approfittarne; Sotiriu tende a dare tutta la colpa agli europei che per le loro mire soffiano sul fuoco e sobillano i turchi contro i greci. Turchi che nelle sue parole ogni tanto sembrato tanti zio Tom improvvisamente ribelli (e pensare che era tanto affezionato! e anche io gli volevo bene, malgrado fosse turco!). Comunque con l'avvento di Ataturk e dei suoi Giovani Turchi, l'intervento degli eserciti stranieri, compreso quello italiano, il nazionalismo avventato e aggressivo dei greci della madrepatria, che per un attimo sognarono persino di riconquistare Costantinopoli, è guerra, una guerra di spaventosa crudeltà da ambo le parti, e infine i superstiti che riescono a fuggire si rifugiano nelle isole più vicine, Samos, Chios, Lesbos, e di qui poi raggiungono Atene dove ancora oggi un quartiere si chiama Nea Smirni. Le pagine conclusive che narrano gli spaventosi giorni dell'incendio di Smirne e le violenze perpetrate sulla popolazione civile sono le più potenti del romanzo, in notevole equilibrio con i capitoli iniziali dell'idillio nostalgico.

E' un libro forse un pochino (volutamente, credo) retorico o finto ingenuo, ma è di lettura gradevolissima e informa su un pezzo di storia poco noto. Fa capire perché ancora oggi tra Grecia e Turchia ci siano attriti pesanti, non solo a proposito di Cipro ma per scoglietti dove non vive una capra e non ci sono dieci centimetri quadri in piano. E anche perché quando si passa la frontiera via mare ti sfiniscono di controlli, code, attese, domande. Molto più i greci, tignosi in maniera davvero assurda, che i turchi naturalmente. I greci ricordano il paradiso perduto e i turchi se lo godono. Anche se almeno per un po' le ricchezze agricole dei greci furono rovinate dall'incapacità dei turchi di coltivare vite e olivo. Sradicarono le colture redditizie, le sostituirono con tabacco e allevamento. Però adesso si direbbe che hanno imparato eccome. Hanno macchine agricole, irrigazione
dappertutto, la pianura alle spalle di Smirne è nuovamente coperta di viti, e penso che per qualsiasi greco il confronto tra la sua terra tutta scoscesa, rocciosa, dove ogni centimetro quadro pianeggiante è coltivato, e questa sterminata pianura verde sia doloroso.
E viaggiando nell'interno, si fanno incontri storici evocativi. Gordio, quella del nodo e di Mida. Sardi, la città di Creso. Amasya, dove regnava Mitridate e nacquero Diogene e Strabone. Per non parlare di Efeso, Mileto, Priene, Magnesia eccetera eccetera. Qualche ragione di sentirsi a casa i greci ce l'avevano. Addio Anatolia.
Altri romanzi di argomento attinente sono Il Labirinto di Panos Karnezis (Guanda), Il settimo vestito di Evghenia Fakinu (Crocetti), Le streghe di Smirne (e/o) di Mara Meimaridi.
Altra recensione a Addio Anatolia su questo blog, del 2019

martedì 16 settembre 2008

Dove vanno le storie?

Allora, a proposito delle costrizioni di cui parla Alessandro Defilippi. Sono forti soprattutto nella scrittura di genere, e so anche che per molti sono uno stimolo e una guida. Ho pensato sovente, ad esempio, a tutti i gialli che in questo periodo spuntano come funghi dalle tastiere di ogni scrittore. Per scrivere un giallo bisogna seguire regole interne abbastanza rigide, pena la perdita di efficacia e la rottura del tacito patto con il lettore che non vuole essere deluso nelle sue aspettative. Io non sarei mai capace di farlo (a parte che la mia natura di bastian contrario mi tiene lontana dalla tentazione di scrivere un giallo), mi sembra una cosa molto difficile, una specie di slalom da esperti. Mi è capitato un paio di volte di dover scrivere racconti con un tema fisso e una scadenza temporale, e per quel che mi ricordo una volta il risultato è stato piuttosto negativo, mentre la seconda mi ha dato una delle soddisfazioni che ricordo con maggior piacere da quando scrivo. Morale? Non sono brava a sfruttare le costrizioni interne, ma penso che sia verissimo che servono a disciplinare e motivare la scrittura. Sono una sfida con se stessi, e possono essere divertenti. Quando insegnavo, per esempio, davo talvolta da scrivere delle storie in cui dovevano comparire determinati personaggi che indicavo io, ecc. Per qualcuno funzionava.

Mi è più congeniale la costrizione legata alla struttura, cui fa riferimento Alessandro citando il Decamerone. Ho spesso utilizzato questo stratagemma per costringermi a seguire un solco definito, per sottrarmi alla vertigine della caduta libera nell'immaginario che si sfalda e si dirada. Adoro la struttura a scatole cinesi, come ho già spiegato su questo blog parlando di Kira Kiralina di Panait Istrati, e ho provato a utilizzarla in due romanzi, uno, Irene a mosaico, edito nel 2000 da Avagliano, l'altro, Il cuore in ballo, inedito. Non so se funzionano ma certo io ho provato molto piacere a scriverli proprio per la sfida di rispettare una struttura complessa. Altre volte ho usato l'alfabeto per scandire i momenti di un racconto, o l'intreccio di personaggi che confluiscono solo nella fase finale. Eccetera eccetera.
D'altronde, dice Alessandro, Sheherazade che altro fa se non narrare sotto lo stimolo più intenso e definitivo: la morte? Forse tutti, quelli che scrivono le storie e e quelli che le leggono, illudendosi di sfuggire a questa regola che non ammette eccezioni, nelle infinite vite immaginate esorcizzano la propria morte.

lunedì 15 settembre 2008

Dove nascono le storie?

Ogni anno la difficoltà di rientrare nella vita quotidiana con le sue limitazioni e le sue discipline – per prima quella di scrivere – diventa più forte. Brutto segno, se basta il breve stacco di un mese o due per provare questo rifiuto , o meglio questa impossibilità verso se stessi... non depone a favore della qualità della vita. Va be', sono fatti miei e non rivestono un interesse generale, e tutto il discorsetto ha l'unico scopo di spiegare perché questo blog è rimasto inattivo per più di due mesi.
E' rimasto in sospeso un interessante discorso con Alessandro Defilippi a proposito di dove nascono le storie, cui lui ha aggiunto un tema che mi incuriosisce, cioè le costrizioni. Anche io penso, come Defilippi, che le storie nascano, e ancora più crescano, nell'inconscio. Crescono di notte, nell'insonnia, nel dormiveglia e nei sogni, e di giorno in un angolo della mente lontano dalla coscienza finché si riversano nelle parole coscienti e costruite che riconosciamo come nostre. Sento già le proteste: ma questa è l'ispirazione! Tu pensi di avere questa malattia vergognosa! Veramente non ho mai capito che cosa fosse l'ispirazione, era uno di quei concetti che quando studiavo a scuola mi bloccavano per astrusità. Poi ho capito che certe volte le parole non contano granché, sono giusto il packaging, che cambia con il tempo e le mode, di concetti più stabili. Che cosa intendevano i Greci invocando le Muse, che cosa intendeva il poeta romantico invocando l'ispirazione? Forse, si parva licet, solo quello che dico io tutti i giorni quando mi siedo davanti al computer: speriamo che mi venga un'idea! speriamo che quest'idea si sviluppi senza arenarsi subito in qualche secca assassina, speriamo che cresca bella e forte e appassionata (appassionante), speriamo che la sua vita sia lunga e operosa... Oppure, ispirazione è alcol, assenzio, droga, caffè, anfetamine, che altro? non me ne intendo. Per me sicuramente sono i sensi, soprattutto odorato, vista e tatto. Poi be', c'è anche un lavoro razionale, ma viene dopo. Anche qui concordo con Defilippi che una storia può avere un inizio luminoso e una fine dai contorni incerti che si definiscono man mano che ci si inoltra nei territori dell'immaginario.
Delle costrizioni parlerò in un secondo tempo per non dilungarmi troppo.