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mercoledì 30 aprile 2008
In margine a un manifesto personale
E' in corso sul blog di ALIA una discussione sui propri manifesti personali. Molto interessante e che mi ha riempita di invidia. Perché vedo che quello che mi manca è proprio una consapevolezza di quello che voglio scrivere, e anche di che cosa mi interessa scrivere. Cioè, per intenderci: non so se voglio scrivere storie sentimentali o chick lit o hard boiled o romanzi modernisti (qualunque cosa siano) perché non so come si fa. Non so come si riesce a seguire delle regole, una struttura ben definita. E non so esattamente che cosa mi interessa, dipende dai momenti, e non è detto che quello che scrivo sia una cosa che mi interessa veramente. Per esempio, ho scritto una storia di parricidio (pubblicata, Il gioco della masca), una di matricidio (pubblicata, Regina), una di parri–matri–nonni–fratricidio (inedita su carta ma pubblicato on line da DuDag nella raccolta La ragazza in tailleur rosso fuoco, Primo amore) ma non posso affermare che lo sterminio familiare sia tra le mie priorità. Diciamo che sono affascinata dall'infinita varietà dei casi umani. E sarei una pessima scrittrice di genere per i motivi di cui sopra, non certo perché la letteratura di genere non mi interessi, anzi, ne sono lettrice soddisfatta e frequente. Io in genere so come vorrei scrivere quello che sto scrivendo. Non sempre ci riesco, ma quando credo di avercela fatta provo una soddisfazione infinita. Quanto a quello che scrivo... è sempre un terno al lotto. Se fossi credente, cosa che non sono nemmeno di striscio o nel peggiore dei miei incubi, pregherei per avere tutti i giorni un buon argomento, un'idea o meglio una sensazione abbastanza ricca da trasformarsi in storia. Amen.
lunedì 14 aprile 2008
Consiglio di lettura: Carmine Abate
Un autore cui mi sono avvicinata di recente (avevo letto delle recensioni dei suoi libri ma non avevo mai trovato il tempo, o l'occasione, per comprarlo) è Carmine Abate. Casualmente ho acquistato Il mosaico del tempo grande e è stata una sorpresa davvero più che gradevole. In questo momento di inappetenza nella lettura, mi ha colpito tanto che mi sono subito procurata anche Il ballo tondo e La moto di Scanderbeg. Sono libri interessanti e piacevolissimi da leggere per più di una ragione. Prima di tutto l'ambiente in cui le vicende nascono, la comunità arberesh di Calabria. Nella mia abissale ignoranza sapevo che esistono delle enclave albanesi di antica immigrazione in Puglia e Calabria, forse anche altrove, che conservano la lingua dei padri, ma non andavo al di là di questo. Quindi ho trovato molto attraente la descrizione di persone, luoghi, modi di essere relativi a queste comunità. Il centro delle vicende narrate da Abate è sempre Hora, paesino arroccato in mezzo ai boschi e lontano dal mare, attorno al quale ruotano tutti i personaggi, alternativamente legati a questo mondo piccolo e in parte arcaico, o al contrario respinti, in fuga, insofferenti. Hora non è l'antimodernità, è semplicemente un paese dove solo i vecchi possono sopravvivere bene, i giovani devono fuggire per trovare lavoro, per lo più in Germania. D'estate tutti tornano, e i germanesi continuano a intrecciare le loro vicende con quelle chi è rimasto. Non solo, anche se la maggior parte degli abitanti non sa più nulla della storia di Hora, c'è chi con cura amorosa raccoglie notizie e tradizioni. In Il mosaico del tempo grande c'è un intreccio continuo tra le storie dell'Albania da cui, nel 1400, arrivarono i fondatori del paese, di Scanderbeg, mitico difensore della patria contro i turchi, e del suo cupo destino, delle prime vicende per trovare un luogo in cui ricostruire un pezzo di patria, una chiesa, coltivare la terra, e l'oggi, con i suoi miti di ritorno, le storie d'amore, le delusioni e le speranze dei giovani. E questo intreccio costituisce il grande fascino di questi libri. Abate è un gran narratore, immediato e sincero, fa entrare nelle vite dei suoi personaggi senza filtro, non indugia mai in psicologismi, non solo racconta ma rappresenta, con una lingua semplice e cristallina ma anche sapida di inclusioni lessicali di colore dialettale. E' facile farsi coinvolgere dai suoi giovani emigrati così diversi dall'immagine tradizionale dell'emigrante schiacciato dalla nostalgia e dalla sconfitta. Sono libri amichevoli ma tutto il contrario di facili o superficiali. Aprono un mondo e incuriosiscono. Vivamente raccomandati a chi nei libri cerca soprattutto la vita e le sue mille possibilità di narrazione.
Carmine Abate, nato in un villaggio calabrese della comunità arbereshe, vive da tempo in Trentino. Pluripremiato e pluritradotto, ha pubblicato con Fazi e Mondadori.
Carmine Abate, nato in un villaggio calabrese della comunità arbereshe, vive da tempo in Trentino. Pluripremiato e pluritradotto, ha pubblicato con Fazi e Mondadori.
mercoledì 9 aprile 2008
Libri che fanno benissimo: Panait Istrati, Kira Kiralina
E' un periodo che incappo per lo più in libri mediocri o noiosi, di quelli che giri le pagine con furia non tanto per vedere come va a finire quanto per finirli in fretta. Così mi viene da ripensare ai libri che significano molto per me, quelli che rileggo e che vorrei avere scritto io. Uno dei due principali è Kyra Kyralina, di Panait Istrati. Ormai ignoto ai più, è stato un personaggio, e uno scrittore, molto singolare. Nato nel 1884 a Braila, in Romania, sulle rive del Danubio, e morto a Bucarest nel 1935, ebbe una giovinezza più che avventurosa viaggiando nei Balcani, in Asia Minore, Siria, Egitto, Francia e Italia del sud, e svolgendo ogni sorta di mestieri.
Durante la prima guerra mondiale fu ricoverato in un sanatorio in Svizzera, a cura della pubblica assistenza. Qui lesse Jean Christophe di Romain Rolland, che lo entusiamò, e cominciò a tempestare di lettere il suo autore, che non gli rispose mai. Dopo la guerra riprese la sua vita vagabonda ma qualcosa non funzionava più, e nel 1921, a Nizza, tentò il suicidio in strada tagliandosi la gola con un rasoio. Fu salvato e in tasca gli trovarono una lettera per Romain Rolland che questa volta gli rispose. Fu proprio Rolland a incoraggiarlo a scrivere le sue esperienze, e così videro la luce Lo zio Anghel (che non ho mai letto) e Kyra Kyralina, considerate le migliori delle circa venti opere che produsse nel successivo decennio. Ottenne fama e fu pubblicato e tradotto anche in russo. Su invito del governo trascorse sedici mesi nell'Unione Sovietica, e al ritorno pubblicò una serie di pamphlet molto critici che suscitarono polemiche nella sinistra francese da cui era stato adottato. Istrati si rifugiò in Bulgaria (allora paese fortemente rezionario) dove morì poco dopo. Ci sarebbe ancora molto da dire su questo autore, la cui vita è interessante sia nel periodo della libertà sulla strada, sia per la luce che getta sulla cultura tra le due guerre. Ma è di Kyra Kyralina che voglio parlare.
E' un romanzo breve (133 pagine nell'Universale Economica Feltrinelli, ancora in catalogo, con la traduzione dal francese di Gino Lupi) ma ricco come pochi altri che ho letto. Racconta dell'incontro del giovane Adrian, che vive a Braila sotto l'impero ottomano con la madre, e Stavro, il "venditore di limonate", mercante girovago di cattiva fama. In successive confessioni, Stavro ricostruisce le circostanze che l'hanno portato a diventare quello che è: vagabondo, omosessuale, irregolare sotto tutti gli aspetti. Un'infanzia felice con una madre bellissima e inquieta e una sorella, Kyra, ancora più bella e incosciente; la punizione del padre sulla moglie traditrice e la vendetta dei fratelli di lei, famosi banditi; la tragica dispersione della famiglia per cui la madre sparisce, Kyra e Stavro vengono rapiti e venduti in Turchia, Kyra in un harem e Stavro come paggio e oggetto sessuale a un ricco personaggio che lo corrompe per sempre. Dopo numerose peripezie Stavro diventa l'assistente del vecchio e saggio Barba Yani, venditore di salep con cui viaggia dalla Turchia al Libano all'Egitto e oltre, perché, dice Barba Yani, "la buona terra del Levante si aprirà grande e libera davanti a te, sì, libera, perché per quanto si dica di questo paese turco che è assolutista, non ce n'è uno in cui si possa vivere più liberamente. A una condizione, però: che tu ti cancelli, che tu sparisca nella massa, che tu non ti faccia mai notare, che tu sia sordo e muto... Allora, e soltanto allora, potrai entrare dovunque, invisibile: le porte ben chiuse non si aprono coi grimaldelli". Ancora una prova dovrà affrontare, un matrimonio bianco con una ragazza gentile che è ben felice di dividere con lui una vita casta ma piena di affetto, destinato a infrangersi per la violenta reazione dei parenti di lei. Ma la costante, la vera ragione di vita di Stavro è la ricerca della sorella, di Kyra Kyralina dai capelli d'oro. Non riuscirà mai a trovarla, solo una volta crederà di intravederla su una carrozza lungo le strade dell'impero...
Mi resta da dire perché questo piccolo libro ha avuto tanta influenza su di me. Certamente perché tocca tasti cui sono molto sensibile: il viaggio, lo sperdimento, l'evocazione di luoghi e costumi ormai fastosamente lontani, quasi trasfigurati in un'aura fiabesca, la nostalgia, la mancanza, la ricerca di una felicità perduta e ostinatamente conservata nel cuore, l'infelicità nascosta sotto uno scherzo. La tenerezza per gli esseri umani, la comprensione, la capacità di compatire. E poi, per entrare in un campo più tecnico, la capacità di creare personaggi indimenticabili e perfettamente connotati con pochi mezzi, facendoli agire e parlare sempre coerentemente; di ricreare un ambiente allo stesso modo; di permeare emotivamente ogni azione dei personaggi e ogni ambiente. Ma forse è la struttura narrativa quello che più mi affascina e ha influenzato alcune delle cose che ho scritto (i romanzi Irene a mosaico, Avagliano 2000, e Il cuore in ballo, inedito). Istrati racconta con la tecnica della narrazione orale (si dice che fosse appunto un formidabile narratore orale): una storia nella storia che genera altre storie, nessuna sequenza cronologica ma nello stesso tempo una sequenzialità logica che non richiede sforzi al lettore, nessuna artificiosità postmoderna evidentemente, ma il naturale proliferare e crescere su se stesse delle storie. E una incredibile capacità di coinvolgere nella vicenda, di raccontare con immediatezza, semplicità e un pathos implicito.
Di Panait Istrati ho letto anche Le Haiducs, storie di banditi trovato su una bancarella, e Il bruto, e/o 1998, e il magnifico Les chardons du Bagaran.
Durante la prima guerra mondiale fu ricoverato in un sanatorio in Svizzera, a cura della pubblica assistenza. Qui lesse Jean Christophe di Romain Rolland, che lo entusiamò, e cominciò a tempestare di lettere il suo autore, che non gli rispose mai. Dopo la guerra riprese la sua vita vagabonda ma qualcosa non funzionava più, e nel 1921, a Nizza, tentò il suicidio in strada tagliandosi la gola con un rasoio. Fu salvato e in tasca gli trovarono una lettera per Romain Rolland che questa volta gli rispose. Fu proprio Rolland a incoraggiarlo a scrivere le sue esperienze, e così videro la luce Lo zio Anghel (che non ho mai letto) e Kyra Kyralina, considerate le migliori delle circa venti opere che produsse nel successivo decennio. Ottenne fama e fu pubblicato e tradotto anche in russo. Su invito del governo trascorse sedici mesi nell'Unione Sovietica, e al ritorno pubblicò una serie di pamphlet molto critici che suscitarono polemiche nella sinistra francese da cui era stato adottato. Istrati si rifugiò in Bulgaria (allora paese fortemente rezionario) dove morì poco dopo. Ci sarebbe ancora molto da dire su questo autore, la cui vita è interessante sia nel periodo della libertà sulla strada, sia per la luce che getta sulla cultura tra le due guerre. Ma è di Kyra Kyralina che voglio parlare.
E' un romanzo breve (133 pagine nell'Universale Economica Feltrinelli, ancora in catalogo, con la traduzione dal francese di Gino Lupi) ma ricco come pochi altri che ho letto. Racconta dell'incontro del giovane Adrian, che vive a Braila sotto l'impero ottomano con la madre, e Stavro, il "venditore di limonate", mercante girovago di cattiva fama. In successive confessioni, Stavro ricostruisce le circostanze che l'hanno portato a diventare quello che è: vagabondo, omosessuale, irregolare sotto tutti gli aspetti. Un'infanzia felice con una madre bellissima e inquieta e una sorella, Kyra, ancora più bella e incosciente; la punizione del padre sulla moglie traditrice e la vendetta dei fratelli di lei, famosi banditi; la tragica dispersione della famiglia per cui la madre sparisce, Kyra e Stavro vengono rapiti e venduti in Turchia, Kyra in un harem e Stavro come paggio e oggetto sessuale a un ricco personaggio che lo corrompe per sempre. Dopo numerose peripezie Stavro diventa l'assistente del vecchio e saggio Barba Yani, venditore di salep con cui viaggia dalla Turchia al Libano all'Egitto e oltre, perché, dice Barba Yani, "la buona terra del Levante si aprirà grande e libera davanti a te, sì, libera, perché per quanto si dica di questo paese turco che è assolutista, non ce n'è uno in cui si possa vivere più liberamente. A una condizione, però: che tu ti cancelli, che tu sparisca nella massa, che tu non ti faccia mai notare, che tu sia sordo e muto... Allora, e soltanto allora, potrai entrare dovunque, invisibile: le porte ben chiuse non si aprono coi grimaldelli". Ancora una prova dovrà affrontare, un matrimonio bianco con una ragazza gentile che è ben felice di dividere con lui una vita casta ma piena di affetto, destinato a infrangersi per la violenta reazione dei parenti di lei. Ma la costante, la vera ragione di vita di Stavro è la ricerca della sorella, di Kyra Kyralina dai capelli d'oro. Non riuscirà mai a trovarla, solo una volta crederà di intravederla su una carrozza lungo le strade dell'impero...
Mi resta da dire perché questo piccolo libro ha avuto tanta influenza su di me. Certamente perché tocca tasti cui sono molto sensibile: il viaggio, lo sperdimento, l'evocazione di luoghi e costumi ormai fastosamente lontani, quasi trasfigurati in un'aura fiabesca, la nostalgia, la mancanza, la ricerca di una felicità perduta e ostinatamente conservata nel cuore, l'infelicità nascosta sotto uno scherzo. La tenerezza per gli esseri umani, la comprensione, la capacità di compatire. E poi, per entrare in un campo più tecnico, la capacità di creare personaggi indimenticabili e perfettamente connotati con pochi mezzi, facendoli agire e parlare sempre coerentemente; di ricreare un ambiente allo stesso modo; di permeare emotivamente ogni azione dei personaggi e ogni ambiente. Ma forse è la struttura narrativa quello che più mi affascina e ha influenzato alcune delle cose che ho scritto (i romanzi Irene a mosaico, Avagliano 2000, e Il cuore in ballo, inedito). Istrati racconta con la tecnica della narrazione orale (si dice che fosse appunto un formidabile narratore orale): una storia nella storia che genera altre storie, nessuna sequenza cronologica ma nello stesso tempo una sequenzialità logica che non richiede sforzi al lettore, nessuna artificiosità postmoderna evidentemente, ma il naturale proliferare e crescere su se stesse delle storie. E una incredibile capacità di coinvolgere nella vicenda, di raccontare con immediatezza, semplicità e un pathos implicito.
Di Panait Istrati ho letto anche Le Haiducs, storie di banditi trovato su una bancarella, e Il bruto, e/o 1998, e il magnifico Les chardons du Bagaran.