La mia storia di lettrice



LEGGERE PER VIVERE

La meraviglia dei libri, secondo me, è che sono fatti di parole. Senza mattoni né pietre né cazzuola né malta, senza effetti speciali né facce bellissime di attori né technicolor, parola dopo parola, aprono mondi e ti portano via, dove vogliono loro. Cattedrali di parole sontuose o ignobili, fresche o vecchie come il mondo, non hanno limiti legati ai materiali di costruzione, dicono quello che vogliono e tacciono quello che non gli interessa. Con la minima spesa possono tutto, e anche se oggi viviamo nell’età dell’immagine, rimangono il regno inarrivabile dell’economia fantastica. L’immaginazione esiste anche senza l’immagine, e prospera grazie alla parola.

Non riesco a ricordare la mia vita prima dei libri. Mio padre aveva l’abitudine, quando ero piccolina, di raccontarmi l’Iliade. Più tardi cominciò a leggermi Salgari a voce alta, forse anche Cuore che non lessi mai. Poi c’erano i libri illustrati, certi grossi volumi con storie un po’ noiose ma figure stupende, luccicanti e precise, “perché sono fatte con il bianco d’uovo”, ricordo che diceva. Chissà che cosa significa. Mi faceva anche fare lunghi viaggi sugli atlanti: viaggi a puntate, oggi andiamo dall’Italia alla Grecia, domani arriviamo in Persia, poi in India. Di ogni paese mi raccontava tutto quello che sapeva, lui che aveva viaggiato pochissimo e si era fatto le sue conoscenze sui libri. Ecco, non riesco a scindere i libri dal viaggio, così come non posso scindere i libri da mio padre. Sono stata una viaggiatrice abbastanza precoce e baldanzosa per i tempi, continuo a esserlo malgrado la deprimente globalizzazione e le tristezze portate dal turismo di massa. Ogni luogo che ho visitato mi mostrava una faccia che aveva lunghe, forti radici nelle letture fatte quando non sapevo neppure che i luoghi di cui leggevo fossero reali, raggiungibili, gremiti di persone vive. Di questo, lo so per certo, è responsabile mio padre e la sua biblioteca.
A casa mia c’erano due biblioteche: una vera, il regno di mio padre, una grande sala con un tavolo al centro e intorno armadi a vetri, e un’altra per bambini, composta da uno scaffale rosso pieno di libri squinternati nella stanza dove studiavo e giocavo – i libri brutti, e un armadio di legno scanalato, scrigno di meraviglie inenarrabili, nell’anticamera al primo piano – i libri belli. Siccome sono l’ultima di cinque figli, molto più giovane dei miei fratelli, questa seconda biblioteca era il mio libero terreno di caccia. Ho potuto usufruire dell’eredità di quattro bambini, più quelli che mi appartenevano davvero, un territorio praticamente infinito da cui forse non sono mai uscita. Per vicende varie i libri della mia infanzia per me sono persi, tesori sepolti che so esistere ma di cui non ho la mappa. Frequentando i mercati dell’usato sto raccogliendone alcuni con fatica. Ogni tanto ho qualche emozione felice, esaltante, quando sollevando un volume qualsiasi scopro uno dei miei amici perduti. Lo vivo come un miracolo, il segno di un destino che di colpo mi sorride contento, sapendo di farmi un grandissimo favore. Ancora ne desidero molti, ma ormai ho la speranza di imbattermi in loro prima o poi, quando meno me lo aspetto, in certi giorni fausti per congiunzioni astrali che non conosco e in cui non credo, ma agiscono di sicuro indirizzandomi al banchetto giusto.

Dei libri infantili che ho amato appassionatamente ricordo non solo le parole ma anche le illustrazioni. La serie meravigliosa di Karin Michaelis, Bibi, una bimba del Nord, che aveva i disegni più belli che abbia mai visto. Le storie di Bibi la seguono da quando ha sei, sette anni fino ai primi turbamenti dell’adolescenza, insieme alle congiurate, le sue amiche del cuore, Ulla, Anna Carlotta, Astrid e Valborga. Ho ancora in mente le fisionomie delle cinque ragazzine, e saprei descriverne difetti e qualità nel dettaglio, nonché le famiglie di provenienza: Bibi nata da una mésalliance, un matrimonio d’amore tra un capostazione e una giovane aristocratica morta troppo presto, Ulla (con cui Bibi si scambia il nome) e Astrid (invidiosa, falsa, intrigante) borghesi, Anna Carlotta viziatissima, scaltra e fintamente fragile figlia di un pastore protestante, Valborga intelligentissima e piena di risorse, proveniente da una famiglia proletaria, con un nugolo di fratellini minori e una madre sempre ammalata. Questa serie oggi sarebbe improponibile tanto Bibi è libera, priva di paure e paranoie, sempre pronta a partire da sola (come figlia di ferroviere può prendere qualsiasi treno gratis) e ficcarsi in situazioni pericolose come farsi ospitare da un gruppo di zingari nel loro carrozzone. Nessun genitore contemporaneo, iperprotettivo e ansioso, metterebbe in mano ai figli dei libri così, li considererebbe antieducativi. Per me sono stati sorsate di libertà e curiosità. Quando molti anni dopo sono stata a Praga, per esempio, la prima cosa che ho cercato è l’orologio della torre che avevo visto in un disegno precisissimo del volume Bibi e il suo grande viaggio. A Bibi devo anche molti pensieri dedicati a un incontro di sostantivo e aggettivo che mi ha colpito perché non lo capivo bene: una dolce camicetta azzurra. Mi sono interrogata a lungo come una camicetta potesse essere dolce. E ricordo la delusione quando è uscito un volume scritto dalla traduttrice, Emilia Villoresi, in cui Bibi veniva ricondotta alla normalità facendone un’infermiera che si innamorava di un medico italiano. Ricordo ancora le parole della quarta di copertina: Bibi diventa una splendida sposa italiana. Ma va’ là, Bibi continua a aggirarsi per l’Europa con il suo amico Ole, quello che da bambino è caduto nella fossa del padre al cimitero, con la cicogna Jensen, il suo berrettino rosso, gli occhi azzurri, le trecce biondissime e le gambe lunghe con le calze alla scagassa.

Altro scrigno di meraviglie senza fine l’enciclopedia Il tesoro del ragazzo italiano. Otto o nove volumoni rilegati in rosso che estraevo a turno dalla libreria per portarmeli in camera, sul letto. Ancora ho l’abitudine di leggere sdraiata sul letto, il pomeriggio. C’era un po’ di tutto ma io leggevo soprattutto la sezione delle fiabe di tutto il mondo, corredate da illustrazioni di artisti magnifici. Uno di cui ricordo le fiabe greche e quelle nordiche, faceva figure dalle linee dolci e colori netti, semplici e accattivanti. Ricordo ad esempio, una fiaba dell’Epiro in cui c’era una ragazza con un costume fantastico, trecce nere e lunga palandrana, in cui c’entrava un gallo, o degli alberi azzurri con frutti rotondi nelle fiabe provenienti dalla Finlandia. Ma il più magico era l’illustratore delle fiabe orientali che innalzava architetture tutte torri, pinnacoli, altane, balconi, tanto complesse da sovrastare con la loro incredibile ricchezza persino le vicende delle principesse di Baghdad e i tappeti volanti. Nel Tesoro c’erano anche riassunti di opere teatrali (mi sono rimaste indelebili quelle dell’Aio nell’imbarazzo e La vita è un sogno) o episodi della vita di personaggi famosi, come il piccolo Mozart che suona davanti alla futura Maria Teresa d’Austria e Ludovico Muratori, pastorello avido di cultura che ascolta fuori dalla finestra le lezioni impartite a nobili infanti. E poi la sezione dei giochi scientifici, che non provavo mai a riprodurre, ma ancora mi rimane la curiosità di controllare se è vero che il vetro può essere tagliato con le forbici sott’acqua. Fantastica miniera questo tesoro, che trattava anche storia e geografia con taglio decisamente fascista, ma alla mia fantasia evasiva e poco portata a interrogarmi sulle questioni reali, d’altronde avevo meno di dieci anni, inarrivabile e indimenticabile.   

Poi ci sarebbero decine di altri libri da ricordare, come la serie dei Ragazzi della valle misteriosa di Aloisio T. Sonnleitner, tre volumi noiosi che ricreano la storia dell’umanità partendo dalla vicenda di due cugini rimasti intrappolati in una valle alpina in cui si erano recati con la nonna per cercare funghi. Una frana li isola dalla civiltà e quelli ripartono dalla caverna, poi si fanno una casa sulle palafitte infine una casa di pietra. Si accoppiano, hanno dei figli, trovano l’oro (la parte più incomprensibile, per me: dopo avere sempre vissuto in pace e concordia l’oro li divide rendendoli nemici) e alla fine, non ricordo più per quale disastro naturale, ritrovano la via per tornare tra gli uomini. Ho detto noiosi ma forse intendevo solo pesanti, anche questi volumi li ho letti e riletti, magari con più fatica ma con lo stesso piacere di altri più facili. Anzi, qui devo confessare che ho sempre apprezzato i libri che non capivo fino in fondo: mi costringevano a pensare, a interrogarmi sulle parole che mi risultavano oscure, e mi spingevano a fantasticare a lungo. In questo senso basilare per me è stato Amei, una bimba, di Ruth Schaumann, pieno di enigmi e immagini che mi sono rimaste indelebilmente in un angolo del cervello, e solo rileggendolo da adulta ho capito perché: è un libro scritto benissimo, molto difficile, un libro che non considera i bambini piccole bocche da nutrire a bocconcini, ma persone in grado di intuire emozioni grandi come la vita. La frase che ricordavo meglio, “com’è duro questo scopettino!” si riferiva proprio alla capacità di provare dolore anche delle creature più piccole, come le mosche e i bambini. Altra frase indimenticabile, “raccogli un mazzolino di venti violette e cinque foglie verdi”, mi sembrava l’equivalente delle fatiche di Ercole, un’impresa quasi impossibile: come si fa un mazzo con sole venti violette? Ci ho provato tante volte, lo giuro, non ci riuscirebbe nessuno. E ancora, la mosca che scivola sui lucidi capelli neri di una zia così povera che nella dispensa ha solo una fetta di salame e un uovo che sacrifica per Amei, che detesta l’uovo sbattuto… insomma un tipo di nutrimento per il cervello che mi ha aiutata in modo decisivo a crescere, lo giuro.

Felicissima friandise, invece, la serie di Mary Poppins di P. L. Travers. Niente a che vedere con la sdolcinata interpretazione disneyana, Mary Poppins è severissima, autoritaria e piena di difetti, primo dei quali una vanità senza limiti. Altro che i sorrisi di Julie Andrews. Giovanna e Michele, con i loro fratellini minori Giovannino, Barbara e Annabella, sono stati i miei amici per molti anni. Mi affascinava quella vita così diversa dalla mia, fatta di spedizioni per comprare il panpepato (mai saputo che cosa sia), pioggia e soprascarpe, zucchero d’orzo e “mettiti il cappello”, cene nella stanza dei bambini e “se sento una sola parola…”. Una vita di regole rigidissime e infrazioni continue attraverso le magie di Mary Poppins, che lei ogni volta negava in nome di una sua indiscutibile dignità. Le mie storie preferite erano “Venerdì disgraziato”, in cui Michele in crisi di capricci e perfidia spacca un piatto di porcellana dipinta poi ci finisce dentro e verifica i guai che ha combinato in quel mondo, “Compere natalizie” dove i bambini incontravano Merope, una delle Pleiadi scesa in terra per comprare regali di Natale alle sue sorelline, “Il parco nel parco” dove i personaggi di plastilina fatti dai bambini prendevano vita in mezzo all’erba. Quanto volte ho scostato fili d’erba nella speranza di scoprire che vi si agitavano piccole repliche di esseri umani! Per non parlare poi dei personaggi di contorno, Robertson Ay, l’ammiraglio Boom, il poliziotto innamorato della cameriera Ellen sempre raffreddata, un mondo intero insieme rassicurante e sempre pronto a squarciarsi per lasciare entrare Nelly Rubina, la signora Corry e le sue grosse lacrimose figlie, il vento dell’est e quello dell’ovest, gli aquiloni e i pettirossi. Basta dimenticare il film e tuffarsi nelle pagine dei volumi originali per perdersi in un incanto pieno di fantasia e spigoli stimolanti. Ebbi però una grave delusione quando, in quarta o quinta elementare, nell’ora dedicata alla lettura a voce alta, proposi alle mie compagne di classe le vicende della famiglia Banks: troppo irreale, nessuna situazione strappalacrime, ottenni un pollice verso unanime.

Non che disprezzassi le storie patetiche, anzi. Senza famiglia di Hector Malot l’ho molto amato, nel mio baule di ricordi indelebili stanno le frittelle di Mamma Barberin, la povera scimmia Capitano squassata dalla tosse, il signor Vitalis che muore di stenti, la canzone napoletana amata da Remigio, “Fenesta vascia e patrona crudele” che fa incontrare Remigio e suo fratello sullo yacht Cigno che avanzava regale nei canali della campagna francese, tra chiuse e argini, trainato da cavalli… E la protagonista di In famiglia, dello stesso autore, mi ha insegnato molto sui meccanismi dell’ascesa sociale: sola, miserrima, raminga, riesce a farsi assumere in una fabbrica, trova rifugio in una capanna abbandonata vicino a un ruscello e investe il primo guadagno in un pezzo di sapone, uno specchietto, un pettine e una pezza di cotone bianco con cui si cuce delle camicie. Così, presentandosi al lavoro pulita e ordinata, inizia una carriera che alla fine la porterà a conquistarsi tutto ciò che le mancava. Magari mi rimanessero in mente con la stessa lucidità i tanti libri che leggo ora, e riuscissi a trarne gli insegnamenti che la mia ignoranza di bambina sapeva raccogliere.
Sul versante opposto, ricordo con grande piacere il libri della Comtesse de Ségur, Buoni ragazzi, Le memorie di un asino, L'albergo dell'angelo custode, Il generale Dourakine, Les malheurs de Sophie, con quei bambini che vivevano tutti in castelli e per farsi visita ordinavano la carrozza. C'erano illustrazioni in cui mi incantavano le loro gambine a clavetta e gli scarpini talmente piccoli e sottili che immaginavo il male a ogni sasso che i poveretti pestavano nei grandi parchi dei loro castelli. I personaggi erano indimenticabili: la buonissima Camilla, che mi faceva un po' pena perché la sua bontà era premiata dal curato con uno stendardo che lei  lasciava sull'altare, e ci credo, che cosa poteva farsene di uno stendardo, poveretta? Sofia sempre intenta a combinare guai molto rimediabili, lo zuavo (parola già di per sé evocativa al massimo), e il generale Dourakine che frustava col terribile knut la pessima signora Papovski, che nelle illustrazioni inalberava una pettinatura talmente insensata (con due ciocche orizzontali che sporgevano ondulate dalle tempie) che a casa mia "sembri la signora Papovski" significava "sei così scarmigliata che sembri una pazza".   
Avere letto tanti romanzi ottocenteschi, fin dall’infanzia, mi ha reso molto sensibile alle dinamiche sociali, alla concreta realtà del lavoro, a pormi sempre la domanda “ma come mangia questo personaggio? come paga l’affitto, i vestiti?” e sicuramente ha influenzato anche il modo in cui costruisco le storie che scrivo. Mi infastidiscono quei libri, non importa se realistici o fantastici, che si svolgono in una borghesia diffusa, sganciata dalle necessità economiche, dove tutti sono liberi di guardarsi l’ombelico come se i soldi piovessero dal cielo. E anche nella mia vita sono sempre incuriosita dalla provenienza sociale, dalle origini delle persone che incontro.   

Non perderò tempo a parlare di quei romanzi “per bambini” che ancora negli anni cinquanta facevano parte delle letture obbligate, ma non imposte, che anch’io ho fatto. Mi sono appassionata a I ragazzi della via Pal, Il piccolo lord, Incompreso (dove ho imparato la parola “abluzioni” e che cos’è un dente di narvalo) Il giardino segreto, Il lampionaio, ovviamente e appassionatamente Piccole donne, un po’ meno a Piccole donne crescono, I ragazzi di Jo, Otto cugini, Rosa in fiore. Di Piccole donne ricordo praticamente tutto, dal primo capitolo con il Natale senza altro dono che il Pilgrim’s progress e la recita casalinga alla morte di Beth e al ritorno del colonnello March dalla guerra. Non mi sono mai fatta una ragione che Jo, con le sue mele mangiate in soffitta e i suoi libri, i capelli tagliati per mandare i soldi al padre, il vestito di tartan (stupenda parola incomprensibile) bruciato sulla schiena, i guanti usati, i pomeriggi passati a leggere ad alta voce all’antipatica cugina ricca che la chiamava Josephine, il coraggio, la capacità di saltare gli steccati, rifiuti l’amore di Laurie. E che se lo sposi quella gatta morta di Amy. Un colpo basso che Louisa May Alcott avrebbe potuto risparmiarci, a me e a milioni di altre lettrici. Per farle sposare un vecchio tedesco triste e noioso, poi. Non glielo perdonerò mai e poi mai. Poi c'era Marigold, la bimba dal cuore esultante di L.M. Montgomery, che mi agghiacciava perché sua nonna aveva una bambola di nome Alicia che stava in una teca di cristallo come una morticina e non si poteva toccare. E che dire di Monica al Madagascar di Max Mezger, che viaggiava in quell'isola esotica piena di scimmie e altre bizzarrie perché suo padre - ma veramente stentavo a crederci - di mestiere raccoglieva orchidee.
 Lessi anche Davide Copperfield in un’edizione illustrata ma completa, assolutamente entusiasta ma scervellandomi su molti particolari incomprensibili. Attterrita dalla scena in cui, dopo che la madre, infelicissima per il matrimonio con l’orrido Murdstone, muore insieme al bambino appena nato, Davide viene portato nella stanza dove i due cadaveri giacciono sotto un lenzuolo. Affascinata dalla zia Trottwood furiosa con gli asini che le mangiano i fiori del giardino, schifata da Huria Heep e dalla sua viscida madre, commossa per la triste sorte di Dora Spenlow e il suo panierino di chiavi. Come si possa considerare Dickens un autore per bambini non lo capirò mai. Da grande ho letto tutti i suoi romanzi e l’ho elevato nell’empireo dei miei autori guida. Ne parlerò a suo tempo.

Delle fiabe ho amato soprattutto quelle di Andersen, perché anche lì c’erano misteri e cupezze a palate. Le figlie di Waldemar Daa, per esempio, con il vento che soffia nella casa abbandonata e racconta le tragiche vite delle ragazze ridotte in miseria dall’ostinata ricerca alchimistica del padre. Di una, imbarcata su una nave travestita da uomo, si dice che “per fortuna” cadde da un albero e morì prima che i marinai scoprissero il suo segreto. Solo rileggendola da adulta ho capito il perché. E la miseria dello studente nella sua soffitta gelida, che compra aringhe avvolte in pagine strappate da libri di poesia in Il folletto del droghiere, mi ha colpito come il destino doloroso del piccolo malato di Cinque in un baccello. Molti anni dopo ho visto la piccola casa in cui visse Andersen a Cintra, in Portogallo. Era un tipo ben complicato, maestro di squisitissime infelicità, e ha scritto storie di un sadismo inarrivabile anche nel campo della fiaba e della letteratura per  ragazzi, che a questo riguardo non ha mai scherzato. La piccola fiammiferaia, tanto per fare un esempio che non è tra i miei preferiti, a me sembra molto più pericolosa di qualsiasi cartoon giapponese. E Il bambino cattivo, storia di un vecchio professore o poeta, non ricordo bene, che in una sera di pioggia accoglie in casa un piccino biondo e zuppo ricavandone in cambio una freccia nel cuore, a parte le implicazioni pedofile e omosessuali, ha procurato non pochi turbamenti alla mia giovane immaginazione. Ma ripeto, più una storia mi risultava incomprensibili più ne rimanevo affascinata. In confronto a quelle di Andersen, le fiabe dei fratelli Grimm mi sembravano piuttosto scontate, ma non dimentico un’illustrazione in cui una bambina trova delle fragole in pieno inverno scavando nella neve di un bosco oscuro: una magia povera ma potente, ancora adesso, in fondo, spero sempre di trovare qualcosa di rosso e di caldo nel gelo, di imbattermi nel meraviglioso a poco prezzo, e mi illudo che basti scavare un po’ per portare alla luce un tesoro.
Una collana senza misteri ma divertentissima era La Biblioteca dei miei Ragazzi della Salani. Libretti dalla carta ruvida, la copertina piena di bei colori, incantevoli disegni in bianco e nero all’interno, titoli allegri e vicende coinvolgenti. Tempesta e Mollica, Un Pierrot e tre bambine, Lo sbaglio del quarto piano, e soprattutto il meraviglioso Otto giorni in una soffitta, che ho ritrovato magicamente proprio mentre ci pensavo sgattando in una pila di libretti smangiati e muffiti. Non era la mia edizione, dei tre fratelli Alano, Francesco e Maurizio che trovano in soffitta la bambina Nicoletta sfuggita alla perfida nonna Giulia e l’adottano di nascosto finché la loro giovane e bella madre la scopre accogliendola in casa, il primo era diventato Paolo; ma chi se ne importa, i disegni erano gli stessi, la minestrina senza burro e la torta di albicocche c’erano ancora, e me lo sono portata a casa con la sensazione di avere trovato delle fragole profumate sotto un cumulo di neve.

Un discorso a parte, che non riuscirò mai a esaurire, meritano i romanzi di Emilio Salgari. Mi sono entrati nel sangue, proprio, molto prima di sapere leggere perché mio padre me li leggeva a voce alta, e poi hanno nutrito la mia fantasia per anni e anni. Mi sono precocemente innamorata del Corsaro Nero: non riuscivo a parlarne nemmeno con mio padre tanto mi emozionava. Carmaux e Van Stiller, le battute scipite che mi parevano geniali (“Chi va là?” “Il diavolo!”), il fratellino sacco di carbone, i lamantini che affioravano di notte ricordando al Signore di Ventimiglia i fratelli morti, “Guarda! Il Corsaro nero piange”, i turni di guardia di notte, la Folgore, gli arrembaggi, le navi nemiche arpionate e Honorata Van Guld, potrei continuare per venti pagine a accumulare ricordi che ancora mi fanno tremare il cuore. Ma a Salgari devo soprattutto la passione per i viaggi, per l’Oriente, l’India dei marabù e dei Thug, le pagode e i vicoli di Benares, i misteri della jungla nera, i fuochi nella notte, i babirussa, le tigri, i manghi che hanno il gusto di mille sorbetti, l’albero del pane e chi più ne ha più ne metta. Sono stata molte volte in India e certamente Salgari ne è responsabile, ma la cosa più incredibile è che ho potuto verificare che c’era tutto quello lui mi aveva promesso. Non ho incontrato mai Tremalnaik né il fedele maharatto Kammamuri, la tigre Darma e il cane Punti, la folle Ada né ho mai sentito il ramsinga dei thug ma solo perché non ho cercato bene. La casa della mia infanzia aveva due piani e io avevo paura a fare le scale, un po’ perché erano buie e un po’ perché c’era appesa una stampa di Fouquet che mi guardava male (e che ora è appesa nel mio studio, benevolo nume delle lunghe ore che passo a scrivere al computer), per cui chiamavo sempre mio padre che mi aspettasse sotto quando dovevo scendere. Lui si divertiva a fingere di suonare il ramsinga (quale strumento sia in realtà non l’ho mai saputo) terrorizzandomi, e insieme riempiendomi di piacere. In compenso riaprendo I misteri della giungla nera da grande l’ho trovato illeggibile, scritto in modo vetusto e del tutto sconclusionato come struttura. Malgrado la sua fama di scrittore per ragazzi Salgari è un vero esponente del decadentismo, i suoi personaggi sono febbrili, nevrotici, tormentati, si innamorano di bellissime quindicenni che comunque muoiono subito. Poi è profondamente libertario, anticolonialista, capace, in tempi in cui i bianchi portavano in giro con orgoglio il loro fardello di razza superiore uccidendo e depredando con disprezzo in nome della civiltà, di eleggere a eroi indiani, malesi, filippini e cinesi, corsari e deportati in fuga dalle prigioni di Port Blair. Non c’è angolo del mondo su cui non abbia scritto. Qualche anno fa, visitando il sito di Angkor in Cambogia, ho scoperto che era nientemeno che La città del Re Lebbroso. A Sandokan, principotto malese, ha fornito un aiutante tuttofare portoghese, l’ineffabile Yanez che fuma l’ennesima sigaretta sdraiato sul canapè. Si può essere di più larghe vedute? Chi lo ha letto nell’infanzia non potrà mai essere razzista. Salgari ha contato più di un amore, più di quello che ho studiato e letto negli anni successivi. Ė una pietra miliare, un demiurgo della mia immaginazione e di tante esperienze che ho inseguito sulle sue tracce. Ho per lui una riconoscenza totale. Senza Salgari, probabilmente, la mia vita sarebbe stata diversa.

C’è un libro, invece, che pur amato da bambina ho capito veramente solo quando l’ho scoperto da grande, leggendolo in inglese: Alice nel paese delle meraviglie. L’edizione in mio possesso aveva illustrazioni così così, Alice era una ragazzina poco attraente, con i capelli corti e scuri, una gonnellina a pieghe che le scopriva le ginocchia e un golfetto abbottonato. Mi piaceva, mi colpiva il racconto del topo a forma di coda e la lacrimosa canzone della Finta Tartaruga, “Buon brodo verde e oro”, Bill il giardiniere del Coniglio Bianco (che orrore la traduzione Bianconiglio!), il Cappellaio Matto e la Lepre Marzolina, ma è da adulta che gli ho votato un’ammirazione sconfinata. In assoluto è il libro che vorrei avere scritto io. La mia invidia per Lewis Carrol, la sua capacità di giocare con le parole, di allargare e stringere la realtà a proprio piacere, di costruire archetipi indimenticabili frullando poesie, nursery rhymes, figure familiari dell’immaginario infantile, è feroce. La lotta continua di Alice, inerme guerriera, per affermare le ragioni della ragione in un mondo irrazionale, mi esalta con la sua cocciuta sicurezza di essere dalla parte giusta malgrado tutto. E il piacere che mi dà è infinitamente rinnovabile. Ė l’unico libro che leggo e rileggo, quando incappo in una giornata no, di quelle grigie e pesanti che fanno sembrare la vita un budello senza finestre, apro una copia ormai tutta squinternata in inglese con le illustrazioni di Tenyel e il mondo ricupera i colori, si riempie di festa. Come, per parlare di film, mi succede con Rocky Horror Picture Show, che mi rimette sempre di buonumore appena vedo Brad e Janet nella chiesa dell’American Gothic. Non amo altrettanto Alice oltre lo specchio, per i miei gusti troppo costruito, appesantito da un certo intellettualismo e sdolcinature. Ma Alice nel paese delle meraviglie è il libro che porterei con me su un’isola deserta, quello che salverei se dovessi sceglierne uno solo. L’unico, ripeto, che vorrei davvero avere scritto io: penso che essere ricordato come l’autore di questo meraviglioso viaggio nel paese delle meraviglie debba rendere il reverendo Charles Dogson, dovunque si trovi ora, l’anima più felice e fiera di tutto l’aldilà. (Per onor di verità, devo dire che c’è un altro libro che vorrei avere scritto, ma non fa parte delle mie letture infantili: è Kyra Kyralina di Panait Istrati).

Leggevo come una furia da bambina, ma questo non mi impediva di giocare anche come una furia con amiche e amici furiosamente amati. Ero molto libera pur avendo genitori anziani, probabilmente perché essendo come ho già detto la quinta, ultima e molto più piccola dei miei fratelli, si erano un po’ stancati del ruolo. Mi guardavano vivere, dandomi regole e sicurezze ma anche una fiducia illimitata. E mio padre mi nutriva di libri e immaginazione. A dieci anni decise che potevo passare a letture da grandi e cominciò con I Malavoglia. Mi piacque enormemente. Per questo non ho mai creduto che ai bambini si debba fornire solo letteratura calibrata, quelle tremende classificazioni “dai nove ai tredici anni”, “dagli undici ai quattordici e cinque mesi”, come se ci fossero degli ingranaggi che scattano, clic clic, a ogni compleanno. Il troppo facile non aiuta a crescere. Non so che cosa capii a quella prima avventura nel mondo complesso della vita adulta, ma so che rileggendo I Malavoglia anni dopo mi piacquero altrettanto. Fui presa, stregata ancora una volta e non mi fermai più. Cominciò, per mio padre, un tormentone che non ebbe fine fino a quando non fui abbastanza grande da comprarmi i libri che volevo: “Papà, che cosa leggo?”. Andavamo in biblioteca e lui cercava, sfogliando i volumi su cui, all’ultima pagina, scriveva con una matita con la mina dura a pressione, la data dell’ultima volta che l’aveva letto (non era raro ci fossero tre, quattro date) e un “Sì” o un “No” che volevano dire adatto o non adatto, in base a una pruderie sessuale legata alla sua educazione. Mio padre era un uomo d'altri tempi, e non mi negò mai un libro perché troppo difficile, troppo problematico, ma solo perché, a suo parere, era troppo scollacciato. Devo dire che i suoi standard non erano severi. Non mi diede mai Zola ma Balzac, Stendhal, Flaubert, moltissimi romanzi inglesi e russi, storie che della vita parlavano eccome, in tutti gli aspetti, solo che non usavano certe parole né descrizioni precise. Ricordo ancora con dispiacere e vergogna quando per Natale gli regalai, ero ormai più che ventenne, Fattaccio a Buenos Aires di Manuel Puig. Non l’avevo letto ma ero stata incuriosita da una recensione. Ne fu scandalizzato, e rivedo l’espressione mortificata con cui mi chiese: “Ma tu l’hai letto?”. Risposi, sinceramente, di no, lui non fece commenti e non ne parlò più. Di Puig in seguito ho letto alcuni romanzi che ho trovato molto belli, ma capisco che non erano adatti per mio padre, proprio per niente. A me invece la letteratura erotica o pruriginosa, o anche pornografica, non dispiace affatto. Al ginnasio ho letto tenendolo sotto il banco Cioccolata a colazione di Pamela Moore, che all’epoca passava per molto osé. Ricordo solo un passaggio che parlava di meduse, alghe, probabilmente riferendosi a un’erezione: non lo capii per mancanza di esperienza, e non ho mai più avuto la curiosità di rileggerlo pur avendolo trovato tristemente negletto nelle bancarelle dell’usato. Ma, come credo molti della mia generazione, ho letto con piacere Emanuelle, con un po’ di noia, in quanto per nulla masochista, Historie d’O, e recentemente mi sono sorbita il tomo di Catherine Millet La vie sexuelle di Catherine M., certo ripetitivo dato l’argomento, ma molto interessante finché l’autrice racconta della sua ossessiva pratica sessuale con chiunque le capitasse a tiro, dell’esibizionismo e del gusto di sprofondare nell’abiezione, molto meno quando, finalmente accoppiata, la sua perversione si trasforma in banale narcisismo. 

Mio padre, industriale, in politica conservatore (amava definirsi codino, forse nemmeno scherzosamente), uomo molto colto, profondamente liberale e rispettoso degli altri ma certo non in sintonia con i rivoluzionari, era in letteratura un amante dell’avanguardia. Leggeva Joyce in inglese ben prima che fosse tradotto in italiano, adorava Gadda, Musil, era di una curiosità senza prevenzioni quando si trattava di libri. Ricordo di essere corsa alla mitica libreria Hellas di Angelo Pezzana, l’unica libreria moderna nella Torino della mia giovinezza, per comprare su sua commissione Il tamburo di latta appena tradotto, molto prima del Nobel che rese famoso Gunther Grass. Senza che mai me l’avesse insegnato, da lui ho imparato a leggere le recensioni e capire se quello di cui si parla può diventare un “mio” libro. Le recensioni indirizzano i miei acquisti, e raramente mi sbaglio. Forse per questo adesso scrivo volentieri di libri, ma faccio fatica a occuparmi di quelli che mi hanno delusa. Stroncare non mi sembra utile né mi interessa molto. Se invece un libro mi è piaciuto ne parlo, ne scrivo e vorrei farlo leggere a tutte le persone che amo. Adoro imprestare i libri, mi provoca una profonda soddisfazione essere diventata per alcuni amici una sorta di biblioteca circolante, almeno finché non ho cominciato a leggere prevalentemente in digitale. Anche se come autrice può sembrare che mi dia un po’ la zappa sui piedi, sono convinta che ogni libro prestato diventerà, prima o poi, un libro comprato in più. Però sono molto pistina: i miei libri li voglio indietro, ne tengo un’accurata contabilità, posso diventare noiosa se non ritornano nelle mie ahimè troppo affollate librerie. Alcuni li ho ricuperati dopo anni, quando ormai avevo perso le speranze, e li ho accolti con tutta la gioia e la cura che si dedica a un amore ritrovato. Ma ho anche avuto l’audacia, e forse l’imprudenza, di sbarazzarmi di venti scatoloni di libri una volta che ho dovuto sgombrare il mio appartamento. Non me ne sono mai pentita ma preferisco non pensarci.

L’adolescenza è stata la fase dei grandi romanzi cui mi lasciavo andare con totale adesione. Da bambina amavo portarmi da leggere nel prato in fondo al cortile, magari con qualche biscotto, per godere insieme dello straniamento spaziale e di quello immaginativo, poi ho perso quest’abitudine, leggevo in camera mia sdraiata sul letto come faccio ancora oggi. Ora frequento spiagge solitarie dove non ci sono lettini né ombrelloni, e anche sdraiata sulla sabbia, sui ciottoli o su uno scoglio la lettura mi sembra più completa, o nelle sale d’aspetto degli aeroporti, nelle camere d’albergo, in treno. Non mi piace leggere in poltrona. Eppure a casa mia, dove la televisione è arrivata tardissimo, la sera in salotto stavamo in sette, cinque figli e due genitori, ognuno con il suo libro, e la domanda più frequente era: che cosa stai leggendo? Ho cominciato molto presto a leggere tutto quello che potevo nella lingua originale, senza dizionari, sforzandomi di capire le parole sconosciute dal contesto. Ricordo quando leggevo un romanzetto francese per signorine, Mon oncle et mon curé, o Mon cousin Guy, o La folle histoire de Fridoline o qualsiasi altra scemenza avessi trovato nello scaffale dei libri permessi senza supervisione di mio padre: a ogni riga chiedevo il significato di una parola a uno dei miei fratelli, che vuol dire moine? abbaye? e loro, annoiati, alzavano lo sguardo dalla pagina e mi dicevano: ma perché leggi in francese se non lo sai? Invece è proprio così che ho imparato inglese e francese, più tardi anche lo spagnolo, leggendo. Anche in questo ho seguito le orme di mio padre che affrontò anche il portoghese senza mai sapere la pronuncia, ma scavando ostinato nelle parole che lo affascinavano.

Questa religione del libro in cui sono cresciuta mi ha influenzato pesantemente quando ho cominciato a scrivere. Da tanto, forse da quando ero bambina, avevo in testa il desiderio di farlo, e come, ma fino all’8 dicembre 1982 avevo scritto solo diari, tanti, lettere, anche, temi, tesi e una serie di itinerari geografici per un testo scolastico. Quel giorno mi trovai per la prima volta da anni sola in casa, con nessuna voglia di uscire per motivi che non ha importanza ricordare qui, e piena di angoscia. Mi misi alla macchina da scrivere (non ho mai scritto a mano da quando ho cominciato con la narrativa cosciente di sé, e sono passata prestissimo al computer, verso il 1987) e buttai giù un racconto, Quattro storie di viaggio. Ora lo trovo illeggibile ma allora ne fui soddisfatta e stupita: avevo scritto quello che volevo scrivere nel modo che desideravo. Certo vi si trovavano già, in nuce, molti dei temi che mi appartengono. Fu l’inizio di una passione che con il tempo è cresciuta fino a diventare dominante, predominante, soddisfacente più di qualsiasi amore e molto più tormentosa, ma insieme liberatrice perché non dipende dalla volontà di un altro, è mia e solo mia. Comunque mi sentivo tremendamente colpevole di presunzione: consideravo, e forse considero, scrivere la più alta delle attività umane, e osavo farlo! Mi pareva un atto di hubris per il quale avrei potuto essere amaramente punita. Per anni non ho avuto il coraggio di confessarlo a nessuno, nemmeno alle persone con cui avevo maggiore confidenza. Mia madre è morta senza saperne niente, mio padre, che forse se ne sarebbe rallegrato, era morto già da tempo. Ho continuato a scrivere le mie storie in segreto, poi l’ho detto a qualcuno ma prima di farle leggere è passato ancora del tempo, almeno dieci anni da quell’8 dicembre.

La mia adolescenza è stata abitata soprattutto dai grandi romanzi dell’Ottocento. Di Balzac, Stendhal e Flaubert ho già detto; ma ci furono anche Thomas Mann con i Buddenbrok, Eça de Queiroz, Daudet, Jane Austen, Charlotte Brontë, Federico De Roberto, Selma Lagerlof, e molti altri. Romanzi per signorine solo quando non potevo chiedere a mio padre di pescare nella sua biblioteca, al mare o in campagna, dove i libri disponibili non erano molti e sceglievo tra quello che c’era. Così lessi un Delly, Tra due anime, che mi guarì da qualsiasi curiosità in quella direzione, e anche un bel numero di romanzetti francesi pruriginosi che stavano nello scaffale della nostra casa al mare, di autori come Gyp (Autour du mariage, Le vieux marcheur) di cui capivo poco ma mi stuzzicavano perché ne intuivo il sottofondo proibito. L’alternativa, ma neanche su quella ho sputato, erano una vita di Sant’Ignazio di Loyola e i Cento modi di cuocere le verdure. La cosa importante era avere sempre un libro tra le mani: di giorno e di sera, lavandomi i denti e facendo pipì, prima di cena e anche durante, mentre mia madre mi ripeteva accorata: non si legge a tavola. In effetti, ero ben maleducata a pensarci. Poi venne l’epoca in cui mio padre mi avvicinò a letture più attuali, Italo Svevo, Kafka, Sologub, Solokov, Hans Fallada, Wiechert. La meravigliosa Medusa degli Italiani, con le sue sobrie copertine e le storie succulente nascoste tra le pagine. Qualche italiano minore, Michele Prisco, Carlo Alianello, Neri Tanfucio, Corrado Alvaro, Ignazio Silone, Francesco Iovine. In un noiosissimo inverno passato a Torino a casa di mia nonna, facevo la prima media per cui avevo solo dieci anni perché ero un anno avanti, Woodhouse e Jerome K. Jerome.   
Rileggendo alcuni di questi da grande, ho avuto sorprese a volte davvero sconcertanti. Per esempio con La Certosa di Parma, che avevo molto amato, non sono riuscita più a entrare in sintonia. Ho capito benissimo perché mi aveva colpito tanto, Fabrizio del Dongo mi è parso un eroe adattissimo alle inquietudini dell’adolescenza, ma ho trovato il suo amore per Clelia pieno di un’esaltazione infantile, grottesco l’escamotage di frequentarsi a luci spente, insomma, al di là dell’ammirazione per l’opera, non ci sono più cascata dentro come da ragazzina. Per fare altri nomi, di J. K. Jerome ho trovato insopportabile il nazionalismo, di Alianello (Il mago deluso) la fissazione sessuale da repressione, tutti aspetti che alla prima lettura mi erano completamente sfuggiti. Altri invece non solo hanno superato la seconda lettura ma si sono arricchiti seducendomi ancora di più, come Orgoglio e pregiudizio, Davide Copperfield, Jane Eyre, I Viceré. Se questa vita tanto breve me lo permettesse, mi piacerebbe rileggere tutti i libri che come aurei mattoni hanno contribuito a costruire la mia visione del mondo, non per distruggere miti ma per trarne quello che non ero in grado di capire quando li ho incontrati.    

Mi rendo conto che manca la poesia in questo mio repertorio. In realtà c’è sempre stata, eccome, ma in misura limitata probabilmente per colpa della mia passione per le storie, i particolari  concreti della vita, i perché e i percome. La scuola che ho frequentato ancora obbligava a studiare a memoria le poesie, e di questo, devo dire, sono sempre stata molto riconoscente. Mi piace ricordare un verso dopo l’altro, magari ricostruendo faticosamente Davanti a San Guido o il 5 maggio in una notte d’insonnia, anche se non mi danno brividi estetici. Da insegnante ho cercato di convincere i miei allievi che era un esercizio fruttuoso ma non ci sono mai riuscita. Ho adorato, al liceo, i lirici greci, Catullo, sublime nell’amore come nell’erotismo spinto e negli insulti, che ancora rileggo di tanto in tanto, e Orazio, arguto e raisonneur, che ha detto tutto, la maggior fonte di citazioni immaginabile. Non rimpiango i tanti pomeriggi dedicati, durante le medie, alla versione in prosa di Iliade e Odissea, perché mi hanno aiutata a riflettere sul significato delle parole, a sforzarmi di capire invece di alzare bandiera bianca davanti alle difficoltà. Ho detestato Virgilio e le sue copiose lacrime, ho trascorso noiose ore di lezione disegnando le morose del lamentoso Tibullo, non me ne è mai importato niente degli atomi cozzanti di Lucrezio, di Ovidio ricordo poco perché frequentavamo solo i noiosi Tristia o qualche innocuo brano delle Metamorfosi, gli Amores erano troppo sulfurei per la nostra, immaginaria, innocenza. Di Dante, come tutti gli studenti, ho apprezzato molto l’Inferno ma ho fatto amari naufragi su Purgatorio e Paradiso. Sorvolo sui tanti trecentisti, che pure non mi hanno mai fatto venire voglia di scappare ma neanche mi hanno conquistata, sui noiosissimi quattrocenteschi, sul barboso Tasso (ma certe parti in cui gli scappava la mano e rappresentava la morte di Clorinda come un atto sessuale le ho rivalutate in anni più esperti), ma mi sono incantata sull’Ariosto. Mi ha divertito Parini, ho ammirato Foscolo. La prima passione vera per un poeta italiano l’ho provata per Leopardi, e ancora non è finita. Ancora lo rileggo, ancora ci trovo emozioni vivissime, che hanno reso la visita alla sua casa di Recanati, pochi anni fa, un’esperienza davvero speciale. Vedere nella biblioteca i testi che il giovane Giacomo ha letto e studiato, i suoi manoscritti, le lettere infantili scatologiche e giocose, guardare dal verone del paterno ostello la piazzola in cui i fanciulli facevano lieto romore al sabato, non mi vergogno di ammetterlo, mi ha toccato profondamente. Un po’ banale? Un po’ da letture liceali mal digerite? Può darsi, ma chi sono io per dimostrami superiore a questo tipo di emozione? I luoghi carichi di storia, con la esse maiuscola o individuale di personaggi speciali, mi commuovono.

Un poeta che ho imparato a amare da mio padre è Guido Gozzano. Ingiustamente inchiodato alle piccole cose di pessimo gusto, per chi non lo conosce frequentatore del salotto di nonna Speranza, è raffinatissimo maestro di metrica e disincantato cantore della rinuncia alla vita, intellettuale che si guarda agire con occhio ironico, antiromantico per eccellenza nei temi e romantico per condizione esistenziale, condannato dalla tisi a una morte precocissima. Molti dei suoi versi mi tornano alla mente spesso perché riassumono esperienze quotidiane. Ricordo che all’esame di maturità mi fu chiesto quale poeta amassi in modo particolare, e lo nominai. Perché, volle sapere l’esaminatore, e io, che non ho mai brillato per presenza di spirito né per capacità di improvvisazione, non seppi rispondere. Ancora me ne dispiaccio. Ora conosco benissimo le ragioni per cui anche oggi mi viene voglia di rileggerlo. La sua casa di campagna nel Canavese, il Meleto, non è suggestiva come altre dimore di letterati, è stata del tutto risistemata con l’immancabile ricostruzione del salotto di nonna Speranza, che non gli era affatto contemporaneo: rinasco, rinasco nel milleottocentoquaranta, dice la poesia, messa in scena antiquaria di uno svagato sogno risorgimentale.       
Di un altro poeta ho ricordi infantili, Palazzeschi, perché mio padre ogni volta che ero troppo lenta a salire una scala mi diceva: salisci, mia Diana, salisci codesto scalino, lo vedi, è bassino, o cloppete cloppete clop davanti a qualche spruzzo di fontana un po’ sputacchiante. Sotto forma di volume ben rilegato in pelle se ne stette a lungo sul tavolo del salotto dove ebbi tempo e modo di sfogliarlo, finché sparì di colpo quando, avendo letto il verso puttane, ma strane, care puttane! chiesi spiegazioni su quella parola nuova. Ho cercato a lungo e finalmente trovato tutte le poesie di Palazzeschi, e mi rallegro di non aver incontrato, nei miei anni più freschi, i fiori parlanti del suo giardino e soprattutto di non aver chiesto a mio padre quali lavoretti con la bocca sapesse fare così bene la violacciocca.   
Del povero Pascoli, che tanto mi ha annoiato a suo tempo con le sue rondini che facevano videvitt, i lampi, le lavandare, i tristi Zvanì, so a memoria 10 Agosto e ho fatto mio un verso, che mi ripeto sovente quando mi sento orgogliosa di qualche meta raggiunta senza aiuto: da me, da me solo, con la piccozza d’acciar ceruleo. Poi ho visitato la casa di Castelvecchio, agghiacciante e affascinante tempio dell’amore fraterno, e mi sono appassionata per un po’ alla contorta personalità dell’ubriacone ossessionato dal nido, gonfio di sensualità repressa che in poesie come Gelsomino notturno o Digitale purpurea gli scappa da tutte le parti. Davvero, con le sue lacrime alcoliche, i bamboleggiamenti, le morbosità, il senso di morte, Pascoli è interessantissimo sia come uomo (o caso umano) che come poeta.
 In tempi più recenti, ma non tanto, ho molto amato Saba, soprattutto A mia moglie che mi pare una delle più belle poesie d’amore che ho mai letto, Caproni, Penna. Ma confesso che non cerco sovente poesia nuova, preferisco rileggere quella che conosco inseguendo, nei momenti in cui ne ho bisogno, le emozioni che ho già provato. A molti poeti, vedendo quanto sono amati e citati, mi sono sforzata di accostarmi senza riuscirci. Per esempio Rilke, cui sono dedicati centinaia di esergo, e malgrado una visita al castello di Duino, non mi è entrato nel cuore. Probabilmente non sono capace di pensiero troppo profondo né troppo astratto. Anche nella poesia ho bisogno di immagini concrete, parole semplici che mi riportino all’infinita varietà delle vicende umane, le uniche che sono capace di riconoscere e mi incantano senza mai stancarmi.

Uscita dall’adolescenza e dalla tutela di mio padre mi si è spalancato davanti un mondo tutto da esplorare. I libri allora costavano poco e anche una squattrinata come me poteva pescare in quel mare infinito. Ho una riconoscenza totale per i volumetti della BUR grigia, e conservo religiosamente tutti quelli che possiedo. Non c’era limite alle scoperte che si potevano fare con sessanta, centoventi, duecentoquaranta lire. Classici latini e romanzi ottocenteschi, tutto era a portata di mano e di borsa. Plinio il Giovane, Longo Sofista, Apuleio, Petronio ma anche Colette e Benjamin Constant, Selma Lagerlöf, Eça de Queiróz, permettevano una disordinata ma felicissima ricerca a chi, come me, aveva più buchi che certezze nella sua formazione. Anche adesso, quando su una bancarella dell’usato vedo una delle copertine grigie cui bastava la forza del titolo per attirare l’occhio, mi faccio commuovere da quella sobrietà da tavoletta mesopotamica e me ne approprio senza considerare che non ho più la vista dei vent’anni, le pagine fitte e i caratteri ridotti mi mettono a dura prova.
 Ovviamente la mia storia di lettrice non si conclude qui, ma non so se la proseguirò mai. Ci vuole molta concentrazione per ricostruire le letture del passato, e io sono pigra e pronta a distrarmi. Quindi mi fermo prima di imbarcarmi nel mare magno e tempestoso delle letture adulte.




      

3 commenti:

emilia cirillo ha detto...

E' una storia che mi ha fatto sentire ancora più amica tua! Che bello perdersi nelle tue parole, nei tuoi libri, e sapere che ami Gozzano ( ma l'ho sempre sospettato!). Grazie Cons, ho sentito la tua voce e la tua passione per le storie in questo bellissimo articolo. E ho pensato ai tuoi racconti, alla Masca, alla Trilogia delle donne virtuose, a quello che ci tiene ancora unite, dopo tanti anni. Bacio

Il commissario Martini di Gianna Baltaro ha detto...

Che meravigliosa storia! mi ci sono anche ritrovata, poi ognuno ha i suoi tesori nascosti, ma Piccole Donne! neanche io ho mai perdonato (da bambine ci giocavamo, io daniela ero Jo, la nostra amica Tiziana era Meg, Beth nessuno voleva frla perché moriva, così alla mia sorellina Gabri toccava quella smorfiosa di Amy...) E Andersen! un po' sadico,sì, ma le fiabe per bambini di Wilde? l'Usignolo e la rosa? Ho studiato la "cucina" di Andersen per un libricino, la cucina della fantasia e nemmeno io ho mai smesso di cercare quella "magia povera ma potente, ancora adesso, in fondo, spero sempre di trovare qualcosa di rosso e di caldo nel gelo, di imbattermi nel meraviglioso"... ma non direi "a poco prezzo", direi nelle piccole cose. Un abbraccio da daniela, carissima Consolata e grazie per il tuo bellissimo racconto.

consolata ha detto...

@Emilia, ti abbraccio e ti ringrazio ancora come ho già fatto tante volte. Tu sai a che cosa mi riferisco. Sono felice che ancora siamo amiche e soprattutto, che ancora ci leggiamo. Vuol dire qualcosa, no? Smack
@Daniela, che piacere incontrarti qui! e scoprire altri punti in comune, e che punti! Andersen e Louisa May Alcott in persona... Una coincidenza baltariana anche questa, no? Di Wilde a me piaceva molto Il gigante egoista, ma forse l'ho letto dopo. In ogni caso le letture infantili secondo me sono una meraviglia che si rinnova sempre, qualcosa che sta lì in fondo e si può tirare fuori per riscaldarsi nei giorni di pioggia, come dici tu il tesoro nascosto. E io non esprimerò mai abbastanza la mia riconoscenza agli autori, scusandomi con quelli che non ho nominato ma ricordo uno per uno. Un abbraccio a te.