mercoledì 22 aprile 2020

Come i cadaveri portano benessere e altre storie: Ylljet Aliçka, Compagni di pietra

Prima di parlare di I compagni di pietra di Ylljet Aliçka, libro che mi è piaciuto moltissimo, vorrei fare una piccola riflessione. Questo libro, di un autore albanese non molto noto in Italia ma ampiamente tradotto e pubblicato in inglese e francese, uscito nel 1999 in Albania e in Francia, nel 2006 in Italia per Guaraldi, è attualmente introvabile: nessuna versione ebook, si può volendo acquistare, usato, su Amazon per 45€ (se leggete in francese vi va meglio, ce n'è una copia usata a 39,99€), su IBS non è disponibile, sul sito della casa editrice non so ma ci vuole troppo tempo a cercarlo, ho rinunciato. Allora, che senso ha che ne parli qui? Intanto potrebbe invogliare qualcuno a leggere altro di suo, non che ci sia molto in italiano, due libri tradotti da Rubettino, di cui uno solo anche in versione digitale. Ma quello che mi interessa è sottolineare l'estrema mortalità dei libri cartacei. Se è il prodotto di un autore famoso, ristampato e riedito, la cosa può essere diversa, ma quanti anni di vita ha il libro di un autore valido ma non necessariamente molto commerciale? Qualche mese in libreria, poi qualche anno in depositi polverosi, e poi via, sparito. Ma una versione digitale, almeno, sarebbe la soluzione più semplice.

Comunque, io ne voglio parlare perché è un bel libro e anche una rarità, visto che di letteratura albanese non è che ne circoli tanta da queste parti. Io amo tantissimo Ismail Kadarè, per esempio La città di pietra o The file on H e ho letto qualche altro romanzo, Rosso come una sposa e Non c'è dolcezza di Anilda Ibrahimi, e sicuramente anche altro che sul momento non ricordo. Amo anche molto l'Albania, e negli ultimi dieci anni ci sono ritornata molte volte, scoprendo sempre nuovi motivi d'interesse. Per cui quando ho trovato questo libro, probabilmente al Salone del Libro, mi sono affrettata a comprarlo, poi è finito nello scaffale dei libri da leggere, e il tempo è passato. Comunque se lo trovate non ve lo fate scappare. Vale la pena. Inoltre si tratta di una raccolta di racconti, e, lo ripeto per l'ennesima volta, io amo tantissimo i racconti.

Ylljet Aliçka ha cominciato come insegnante elementare, poi si è occupato di editoria scolastica, poi ha intrapreso una carriera politica che lo ha portato a essere ambasciatore in Francia, Portogallo e Monaco, ha scritto libri di successo, è sceneggiatore, insomma un tipo versatile. Come scrittore è conosciuto soprattutto per Gli internazionali. Diplomatici in carriera, reperibile in italiano sia in cartaceo che in digitale. Io l'ho comprato, e prima o poi lo leggerò e ne parlerò.

I compagni di pietra è composti di quindici racconti veloci, incisivi, senza sbrodolamenti né riflessioni didascaliche, da cui trapela la capacità di sceneggiatore di Ylljet Aliçka. Molti dialoghi, niente descrizioni se non di qualche personaggio, una netta prevalenza del grottesco implicito, molta empatia per qualche personaggio più patetico in un paio di storie. Sono tutte ambientate nell'epoca di Enver Hoxha o negli anni dopo la sua morte, e arrivano fino alla crisi finanziaria e i disordini del 1997. Molto presente la morte, ma come spinta a mettere in luce situazioni paradossali e ridicole come la gestione dei cadaveri in Storia di un decesso, o insolita fonte di guadagno in Confessione di un poeta, o spia rivelatrice della disumanità del sistema e degli uomini che ne fanno parte in Buche per piantare gli alberi e Storia d'amore. Non mancano naturalmente la burocrazia ottusa e la dirigenza assurda, nell'esilarante Slogan, da far leggere a tutti gli insegnanti nostrani, in cui si racconta dell'obbligo imposto ai docenti di scrivere uno slogan politico, assegnato dal direttore, con sassi imbiancati a calce sulle pendici montane e dell'obbligo di averne cura insieme ai propri alunni, con tutte le conseguenze del caso. Tipi strani, geniali e folli, sono i protagonisti di Una storia (quasi inverosimile) di nobili e Semplice cerimonia (il cui protagonista è un italiano che non ci fa una gran bella figura), mentre invece i protagonisti di Triste storia di paese (forse il mio preferito), La madre del carcerato, fulminante apologo sul potere e la paura, Invito a nozze commuovono e sono intensamente attraenti nella loro ingenuità e sincerità fuori dal tempo, mentre Un anno difficile è una commedia grottesca che si destreggia tra dramma e comicità nel 1997, l'anno dell'anarchia sociale.

Insomma, mi ripeto, un libro che consiglio vivamente a chiunque ami i racconti ben scritti ma non compiaciuti, abbia curiosità per il mondo in cui viviamo e per le realtà meno conosciute anche se vicinissime, che spero avvicini il lettore all'Albania e ai suoi abitanti, con l'augurio che possiate procurarvelo in qualche modo.
La traduzione è di Amik Kasaruho, e avrebbe avuto bisogno di una energica e accurata revisione. 

   

lunedì 13 aprile 2020

Letture in quarantena 4: Kate Chopin, Il risveglio

Uno di quei libri che hai lì da chissà quando, e chissà se verrà mai il momento giusto per leggerli... Invece finalmente il momento è venuto e devo dire che Il risveglio di  Kate Chopin 
è stato una vera sorpresa (non sempre i libri famosi, a leggerli, sono poi quel gran piacere...). Mi è piaciuto tantissimo, posso dirlo? anche se forse non sarebbe il modo giusto per cominciare una recensione. Ma io non faccio recensioni, condivido solo le mie impressioni di lettrice, e questa volta sono pienamente soddisfatta.

The awakening, uscito negli Stati Uniti nel 1899, pubblicato da Einaudi nel 1977 con traduzione e prefazione di Erina Siciliani, è un libro breve, veloce nello svolgimento e nella scrittura, estremamente moderno e importante. Non so se sia vero che "a suo tempo suscitò scandalo", come si legge praticamente di qualsiasi libro del secolo scorso che tratti argomenti ancora piuttosto scottanti. Kate Chopin nella sua breve vita (morì a cinquantaquattro anni) visse per lo più in Missouri, ma trascorse anche una decina d'anni in Louisiana dove assorbì la cultura creola, molto importante nelle sue opere, che consistono soprattutto di racconti.

La protagonista, Edna Pontellier, è una giovane donna della borghesia di New Orleans, che ha fatto tutto quello che la società si aspettava da lei: si è sposata presto senza soverchio amore, ha due figli per i quali alterna trasporto e indifferenza, fa vita sociale nella sua bella e grande casa, e trascorre le vacanza estive a Grand Isle, in una dimora signorile trasformata, di direbbe oggi, in resort. Nelle casette che lo compongono vivono altre famiglie, o persone singole, della medesima classe sociale, che si ritrovano lì tutte le estati, mentre nella casa principale vive Madame Lebrun, la padrona con i due figli, tra cui il maggiore, Robert, stringe un legame di amicizia con Edna. Nel contesto limitato di Grand Isle c'è il controllo sociale, il pettegolezzo, la discriminazione, tutto raccontato con sicurezza e con penna lieve e veloce. Si cena insieme e insieme si va a nuotare, si passano le ore sulle verande, le amicizie sono le stesse della città, tutto è sotto gli occhi di tutti.

Ma quello che succede a Edna è soprattutto nella sua mente. Tutto il romanzo più che di fatti è intessuto di sensazioni, pensieri ondeggianti, e la trasformazione di Edna è più profonda che vistosa. Eppure è una trasformazione, è appunto un risveglio dopo il lungo sonno dei suoi ventisette anni di vita. Comincia a sperimentare insofferenza e attrazione, ma soprattutto voglia di affermazione di sé. Non dirò altro dei fatti se non che intervengono alcuni personaggi, il già nominato Robert Lebrun, la bellissima Adèle Ratignolle, una spinosa pianista fuori dagli schemi, Mademoiselle Reisz, il bellimbusto Alcée Arobine e altri, sostanzialmente marginali rispetto alla vera avventura che è quella che si svolge appunto dentro Edna, nel suo cervello, nel suo cuore e anche nel suo corpo. C'è un risvolto amoroso che però non è centrale come ci si potrebbe aspettare. E' un romanzo, in questo senso, decisamente diverso e assai più moderno degli innumerevoli bei romanzi con una donna come protagonista. Quello di Edna è un risveglio a tutto tondo, che non consiste solo nella rivendicazione di amare chi vuole, ma esige l'indipendenza, l'autonomia, l'accettazione di sé come individuo libero. Troppo avanti sui suoi tempi, alla fine.

Non a caso Il risveglio e la sua autrice, tutto sommato dimenticati, sono stati riportati alla luce dal movimento femminista nella seconda metà del secolo scorso. Ma secondo me il fascino di questo bel romanzo, oltre alla presa della scrittura e alla perizia della costruzione, sta nel fatto che non c'è niente di didascalico, di esemplare nella storia di Edna Pontellier. Non è un romanzo a tesi, non c'è intento missionario né volontà di dimostrare qualcosa. Ma vale assolutamente la pena di leggerlo abbandonandosi alla storia, al fascino dell'ambientazione e del personaggio, in una parola, perché è bello.  

       

      

mercoledì 8 aprile 2020

Letture in quarantena 3: Daniel Everett, Don't sleep, there are snakes

Va be', mi rendo conto che questo è un consiglio di lettura molto selettivo, che può apparire snob, ma in realtà si tratta di un libro assai godibile per chi si interessa di linguistica e di etnografia, e anche per
chi ama leggere di paesi insoliti e mondi poco conosciuti, senza essere né difficile né eccessivamente tecnico. L'unico vero problema è che io non sono riuscita a trovare una traduzione in italiano, e penso si trovi solo in digitale (ma ci sono in rete dei pdf gratuiti), o in qualche remainder's molto ben fornito. Parlo di Don't sleep, there are snakes (Non dormire, ci sono serpenti) di Daniel Everett, uscito con successo nel 2008.

La biografia dell'autore è anch'essa molto interessante, tanto quanto il libro. Convertitosi al cristianesimo a diciott'anni e sposatosi alla stessa età con una correligionaria, linguista e missionario, si trasferì in Brasile con la moglie e i tre figli per studiare la lingua della tribù amazzonica dei Pirahã per incarico del SIL. Dopo anni passati in mezzo a questa popolazione, felice e serena ma refrattaria a qualsiasi tentativo di evangelizzazione, si allontanò dalla fede e abbandonò il missionarismo, tagliando i ponti con la famiglia.

Quella dei Pirahã è una popolazione molto piccola (le cifre che trovato variano ma stanno tra i 240 e i 380 individui), divisa in varie comunità lungo il fiume Maici, tributario del Rio delle Amazzoni, interessantissima sia nelle sue abitudini di vita e sussistenza, sia per la lingua, unica del suo ceppo. Daniel Everett descrive con brio ma anche con estrema precisione le sue avventure. Ci butta immediatamente nel mezzo della foresta e sul fiume raccontando le vicissitudini di un viaggio intrapreso quando sua moglie e la sua figlia maggiore prendono la malaria (lui pensa che sia tutt'altro, ma i Pirahã che se ne intendono lo capiscono subito), e parla della vita del villaggio con grande rispetto, empatia e chiarezza. Si è fatto degli amici che lo aiutano nelle sue ricerche linguistiche, importantissimi tramiti con la popolazione disseminata nella foresta, ma sempre lungo il fiume.

Una parte notevole del libro è dedicata a questioni linguistiche, a volte un po' troppo astruse per le mia scarse conoscenze ma in genere curiose e interessanti. Per esempio, i Pirahã usano solo due numeri, uno e due, non distinguono singolare e plurale, non hanno termini per definire i colori. E hanno abitudini insolite per la nostra mentalità, non sono interessati alla proprietà privata, non dormono mai più di due ore di fila perché è pericoloso (appunto, ci sono i serpenti), per cui parlano, gridano e fan casino per tutta la notte. Ma non voglio riassumere riducendo a banali curiosità i contenuti interessantissimi di Don't sleep, there are snakes. Un libro che - ribadisco che vi deve interessare l'argomento - dà moltissimo, anche se l'ultima parte, in cui polemizza in particolare con Noam Chomsky e le sue teorie, in qualche punto si fa pesante. Ma rimane la simpatia per l'autore, l'ammirazione per la sua sincerità, e una grande riconoscenza per averci aperto un mondo assolutamente sconosciuto e affascinante.        

lunedì 6 aprile 2020

Letture in quarantena 2: Karen Blixen, Ehrengard

Karen Blixen è una scrittrice che ammiro moltissimo, e il motivo principale, oltre alla bellezza della scrittura e all'originalità delle vicende narrate, è che non parla mai alla pancia ma solo al cervello.
Ultimamente è stata un po' dimenticata, non è particolarmente interessata alla questione femminile e questo fa sì che non venga inserita nel mazzo delle venerate maestre del pantheon femminista. Al massimo si ricorda La mia Africa (il suo romanzo che ho amato meno) in quanto autobiografico, o Il pranzo di Babette, bellissimo racconto ma non il suo più straordinario, e ne ha scritti molti. Il primo dei suoi libri che ho letto, Sette storie gotiche, mi ha incantata e stregata (ho messo il link al risvolto di copertina perché non saprei dire di meglio). Ho amato moltissimo anche Racconti d'inverno, ma qui parlerò solo del racconto lungo Ehrengard, a mio parere perfetto. Ecco, in Karen Blixen, si parva licet, mi riconosco un poco, o meglio, e con meno presunzione, riconosco le mie aspirazioni. Prima di tutto privilegia il racconto, che secondo me è la forma perfetta di narrazione. Poi pratica lo straniamento, l'altrove, sia temporale che locale. Infine non teme la magia e il mito, in una parola il fantastico.

In Ehrengard non c'è nulla di fantastico ma tutto l'insieme, dall'ambientazione in una piccola corte del centro Europa, alla caratterizzazione dei personaggi, al sapore di apologo e la drammatica ironia della conclusione, ci tiene ben lontani dal quotidiano e dal realistico. La vicenda ruota intorno a un segreto di corte da proteggere, una vergine guerriera integerrima anche se non particolarmente sensibile, appunto Ehrengard, e un pittore un po' diabolico, Cazotte, che per puro spirito dissacrante e puntiglio intellettuale vuole farla cadere - sedurla senza amore, farla arrossire, lei così innocente e algida. La vicenda è complessa e esemplare, e naturalmente Cazotte sarà sconfitto (non temo di fare spoiler, la conclusione è implicita fin dall'inizio) e il fenomeno che voleva provocare, l'Alpenglühen, cioè il rossore delle cime delle montagne dopo il tramonto, si verificherà comunque, ma in modo molto diverso da come l'aveva immaginato. 
Uscito postumo nel 1963 e in italiano nel 1979 con la traduzione di Adriana Motti, neppure cento pagine nell'esiguo formato della Piccola Biblioteca Adelphi, è una lettura secondo me imperdibile, una lettura che fa bene al cervello, e pur parlando di un tentativo di indurre un'emozione in un personaggio poco reattivo, non mira a suscitarla nel lettore, ma solo al suo piacere intellettuale. Un racconto perfetto, appunto.
     

domenica 5 aprile 2020

Letture in quarantena 1: Kader Abdollah, Un pappagallo volò sull'IJssel

Ho trascurato il mio blog in maniera vergognosa, ma con quello che succede, sembra impossibile,  anche a stare chiusa in casa il tempo vola tra telefono, social, Netflix, scrivere e leggere... insomma la povera Anaconda sarà pure Anoressica ma ha bisogno di un po' di nutrimento. Non ho letto tantissimo, ma tre libri di cui vale la pena parlare ci sono.

Oggi comincio da Kader Abdolah, Un pappagallo volò sull'IJssel. Avevo appena letto La casa della moschea per cui mi sono addentrata volentieri in un altro romanzo dell'autore iraniano naturalizzato olandese. Che non mi ha delusa, anzi mi è molto piaciuto, anche se all'inizio ho creduto per un po' che si trattasse di un libro scritto in un periodo anteriore, un po' per la scrittura molto semplice e talvolta trasandata, un po' per la semplicità delle vicende (la ripetizione è voluta). Invece è uscito nel 2014 in Olanda e nel 2016 in Italia, sempre per Iperborea. Comunque, racconta le peripezie dei richiedenti asilo in Olanda negli anni precendenti all'11 settembre, alle guerre in Medio Oriente e all'assassinio di Theo van Gogh. Molti sono i personaggi, a cominciare da Memed, fuggito dall'Iran con un passaporto falso per poter far curare la piccola figlia gravemente ammalata, che all'inizio pare il protagonista ma poi si perde un po' nel corso del romanzo. Nella piccola città dove viene mandato incontra altri rifugiati provenienti da paesi islamici, e le loro storie intrecciate costituiscono la trama. L'Olanda è molto ospitale e attenta a fornire servizi perché l'Islam non è ancora stato individuato come il grande nemico.

Molto importanti sono le donne, Lina la traduttrice, intelligente e determinata, che riesce a vivere vicende amorose e politiche in contemporanea, Pari, che paga a duro prezzo la sua ricerca di indipendenza e felicità, la moglie del colonnello siriano divisa tra presente e passato, ma anche i dodici anziani che rappresentano la continuità con la cultura e le tradizioni del paese di provenienza, Khalid il pittore miniaturista e infine il pappagallo donato a Pari da una guaritrice olandese, che tutto vede e prevede dall'alto svolazzando lungo le rive dell'IJssel... Le vite dei rifugiati si intrecciano con quelle degli olandesi che li accolgono e non hanno paura di mescolarsi con loro.

Abdolah non rifugge dagli elementi di sapore fiabesco o magico, che aggiungono un aroma di spezie orientali alla narrazione. Tutta la prima parte, che tratta un periodo in cui i rifugiati erano relativamente pochi e soprattutto suscitavano interesse e non paura, ha un andamento lieve e sognante malgrado la forte presa sulla realtà e una certa accattivante ingenuità, ma il ritmo si accelera e l'atmosfera si incupisce nella parte finale, come già succedeva in La casa della moschea. Un romanzo che prende e fa girare una pagina dopo l'altra con gran piacere e curiosità, complice la struttura a capitoli brevi e l'abilità nel delineare i numerosi personaggi, ognuno dotato di personalità e caratteristiche ben distinte. Adattissimo alla lettura in questi giorni un po' svagati e un po' inquieti.  Traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo.