domenica 25 febbraio 2018

Mai fidarsi degli astrologi! Un mistero della camera chiusa in Giappone: Sōji Shimada, Gli omicidi dello zodiaco

Uscito in Giappone nel 1981, tradotto in inglese soltanto nel 2014 e in italiano nel 2017, Gli omicidi dello zodiaco di Sōji Shimada è un perfetto mistero della camera chiusa. Un curioso esercizio di bravura per un giallo rétro, si sviluppa su due piani temporali, il 1936 in cui si è svolto il delitto e il 1979 quando una coppia piuttosto insolita di detective, l'astrologo Mitarai Kiyoshi e il suo assistente Ishioka Kazumi (protagonisti di molti altri libri di Sōji Shimada), decidono di cercare di risolvere il tragico fattaccio. Non entro nei particolari della vicenda, in cui ci sono ben otto morti, aspetti esoterici, astrologia, testamenti deliranti di assassini e personaggi straordinari, continui riferimenti alla cultura occidentale e un sapiente uso dell'orrore che deriva dalla scelta del corpo umano come strumento da violare e trasformare.

Tutto comincia con il folle testamento di Humezawa Heikichi, prima vittima dell'assassino sconosciuto, cui si aggiungono sette ragazze, tutte figlie o figliastre di Humezawa, e prosegue seguendo i passi dei due detective che cercano di dipanare il delitto di quarant'anni prima. 
Ciò che conta è che si tratta di una perfetta struttura che ha lo scopo di far spaccare la testa al lettore: gli vengono forniti tutti gli elementi perché possa risolvere il mistero che ha fatto impazzire generazioni di giapponesi, su cui si sono scritti fiumi d'inchiostro e si sono arrovellati in molti.
Alla fine ogni tassello va al suo posto, arriva la soluzione e il lettore è soddisfatto.

In realtà ho trovato l'avvio un po' faticoso, la descrizione della scena del delitto molto minuziosa e il memoriale con cui si apre la vicenda, un po' troppo arzigogolato e incredibile, non hanno catturato subito la mia attenzione. Ma man mano che la vicenda prosegue e i due detective si sbattono in giro per Tokyo e poi per Kyoto, l'intreccio prende quota e il quadro di vita giapponese che ne emerge, ricco di particolari della vita quotidiana, luoghi e locali pubblici, aggiunge interesse e colore alla storia. La scrittura scorrevole è ottimamente resa dalla traduzione di Giovanni Borriello, il passo narrativo molto calmo ci permette di seguire i personaggi per le vie di Tokyo e Kyoto indicate con topografica precisione. 

Molto consigliato (esclusivamente) a chi ama questo tipo di rompicapo perché a differenza della stucchevole abitudine che ormai è invalsa in tutti i thriller nostrani, nordici o nordamericani, l'interesse verte proprio sulla vicenda e i suoi misteri e non sulla vita privata, le abitudini alimentari, le frustrazioni amorose e i tic degli investigatori. Moltissimi i cenni alla cultura europea, e sicuramente non casuale la somiglianza con la coppia Holmes e Watson, esplicitamente chiamati in causa. Una lettura molto godibile e non banale, ma fortunatamente senza la pretesa di veicolare chissà che attraverso la descrizione di delitti (abbastanza efferati e davvero molto originali in questo caso).      

venerdì 23 febbraio 2018

Niente di nuovo sotto il sole, nemmeno la perfidia umana: Celia Dale, In veste d'agnello

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Ripubblico una recensione del 14/5/2013, uscita anche il 24/5/2015, che mi è tornata in mente leggendo sul giornale dell'arresto di una banda di deliquenti specializzata in truffe agli anziani. Il libro, edito da Sellerio nel 1999, è piuttosto straordinario e merita davvero di essere letto. Questa insistenza da parte mia è dovuta al fatto che tratta un argomento a mio parere abbastanza terribile, spregevole e molto attuale, di cui non mi pare si parli granché.   

Non avere letto In veste d’agnello, di Celia Dale (1912- 31 dicembre 2011) noir o poliziesco o thriller che lo si voglia considerare, è un vero peccato. Le notizie biografiche su questa scrittrice sono scarse, una foto la mostra con una faccia certo non bella eppure di straordinaria facciosità. Fu sposata, lavorò come segretaria di uno scrittore (o editore, i dati che ho trovato sono discordi), fu critica letteraria, pubblicò tra il 1943 e il 1988 tredici romanzi e una raccolta di racconti. Questa credo sia l’unica sua opera tradotta in italiano, il che è sicuramente un ulteriore gran peccato. Pubblicata quando la sua autrice aveva settantasei anni, affronta uno degli argomenti più sgradevoli e moralmente disgustosi che conosca, cioè le truffe agli anziani, ma lo fa in maniera davvero egregia, acchiappando il lettore dalla prima pagina e portandoselo appresso senza sforzo fino all’ultima. 

Londra, anni ottanta: Grace Bradby e Janice, alias Mrs Black e Mary, uscite dal carcere insieme e coabitanti per convenienza, si presentano a casa di vecchiette che vivono sole in veste di inviate dei servizi sociali, le imbottiscono di balle a proposito di possibili somme integrative alla pensione, poi Mary – l’assistente – si offre di fare una bella tazza di tè, riempie di sonnifero quella della padrona di casa che si addormenta, dopodiché le due hanno tutto il tempo di rovistare con calma e portarsi via tutto, la pensione, i risparmi se ci sono, i pochi oggetti che possono essere rivenduti ai mercatini delle pulci o ai bottegai poco scrupolosi: insomma la vita, i ricordi, l’identità delle vittime. Il bottino non è ricco ma facile da piazzare, e facendo tre o quattro colpi al giorno ci vivono bene in due. 

Grace è più anziana, piccola, robusta e affabile, ed è la mente: pianifica, punta le potenziali vittime all’ufficio postale quando ritirano la pensione e le segue fino alle loro abitazioni, si segna gli indirizzi, controlla le targhette, poi si premura di disfarsi immediatamente della refurtiva, sempre in mezzo alla folla, sempre il più lontano possibile da casa. Janice è l’anello debole: bruttina, pettinata come John Lennon, totalmente vacua, romantica, alla ricerca di un uomo che la tratti bene, vittima di impulsi autolesionisti come tenere piccoli oggetti trafugati. Sono due personaggi magnifici, soprattutto Grace, che malgrado la sua naturale amoralità, la sua totale mancanza di empatia, il modo cinico e spontaneo con cui delinque e manipola le vite altrui, non riesce a suscitare rifiuto, per il modo magistrale con cui Celia Dale conduce la sua narrazione. Poi c’è un giovanotto che entra casualmente nella loro vita, e un uomo solitario che fa scattare nella mente fertile di Grace un piano assai più ambizioso… 

Non dico niente sulla trama perché è avvincente e piena di colpi di scena. Dico solo che è un romanzo eccellente, ed è una vergogna che non sia più conosciuto. Dipinge vividamente la Londra degli anni ’70/80, swinging e cosmopolita forse, nei giusti quartieri, ma piena di sacche di dignitosa miseria o di ignominioso benessere dove non arrivano né la moda, né i turisti, né la musica, neppure gli immigrati, una Londra più vicina a quella umanissima di Dickens che al nostro immaginario contemporaneo. Fa pensare anche a certe figure dei romanzi di Barbara Pym, vite grigie e nascoste come i loro sentimenti. Tutte le vecchiette prese di mira da Grace e Janice sono altrettanti personaggi completi, mai descritti come tipi o macchiette, ma sempre persone, riconoscibili nella loro unicità e diversità. Un personaggio grandioso è Marion Robinson, l’ex attrice egocentrica ma non stupida che diffida di Grace, e vive di ricordi tra fotografie e abiti di scena, legata alle proprie abitudini di vecchia che non ammette di essere stata messa da parte dalla vita, sicuramente ispirata alla realtà (Celia Dale era figlia dell’attore James Dale). 

Nei pensieri del poliziotto che cerca di risolvere il caso delle vecchiette derubate, perché non tutto va sempre bene alle due delinquenti e prima o poi qualche errore lo commettono, c’è a un certo punto un desolato ritratto della condizione senile: Rinchiusi dentro covi e tane in tutta l’Inghilterra, uomini e donne anziani tenevano duro, con coraggio o malumore, ubriachi o sobri, matti o sani di mente, ma con il diritto alla vita finché durava, confortati dai loro tesori, dagli oggetti che testimoniavano che erano stati giovani, che avevano amato ed erano stati amati, che avevano lavorato, che avevano delle capacità, che contavano qualcosa. Derubarli era una sorta di omicidio, privarli con l’inganno del loro passato significava disprezzare la loro dignità. Anch’egli è un personaggio accattivante, altruista, capace di accogliere, entusiasta e contento del proprio lavoro, bonario, e insieme ingenuo e tradito dal bisogno di essere amato. Ecco, l’amore manca a tutti in questo romanzo, o chi ce l’ha deve nasconderlo, e c’è anche chi, come Grace, non ha mai saputo che cosa farsene e non sa neppure nominarlo: Il matrimonio non è così eccitante. […] Non sono mai stata interessata al sesso, cara, è solo l’aspetto legale della situazione a essere più vantaggioso, se si è sposati.

Tutto questo è raccontato in modo piano e veloce, oggettivo, attentissimo ai particolari concreti che dipingono un’epoca, ricco di interni di cui sembra di sentire l’odore e intravedere le penombre, senza indulgere in emotività o eccessi di psicologia, sempre in terza persona ma alternando il punto di vista di Grace, di Janice e del poliziotto. Purtroppo la traduzione di Rosalia Coci inciampa e barcolla, appoggiandosi a un lessico a dir poco sorprendente: per limitarsi alle pagine 120-122, confonde fodere e tappezzeria, introduce neologismi come graticolato per graticcio, ci accompagna nel piccolo patio circondato da pareti dietro le tende che si intuisce poi essere una veranda, o meglio un balcone verandato, ci racconta di una proficua mattinata in giro per la Harrow Road dove, a dispetto della conurbazione di edifici popolari, trovò alcune enclavi di vecchie casette a schiera, nei seminterrati delle quali si annidavano ancora alcune promettenti vecchiette per il giorno dopo. Non è che voglio essere pignola, ma un libro così bello avrebbe meritato una maggiore cura.        

martedì 13 febbraio 2018

La difficoltà di essere donne in Turchia: Adalet Ağaoğlu, Coricarsi e morire


Con la pubblicazione di Coricarsi e morire di Adalet Ağaoğlu (traduzione di Fulvio Bertuccelli), L'Asino d'Oro ha affrontato un'iniziativa editoriale veramente coraggiosa. Pubblicato in Turchia nel 1973, primo volume di una trilogia che ricostruisce la storia del paese dalla fine degli anni '30 agli anni '70 del secolo scorso, è un intenso romanzo dalla struttura complessa in cui si alterna un presente in cui la protagonista Aysel attende la morte in una camera al sedicesimo piano di un albergo di Ankara, non si sa perché né come, mentre sospetta di essere incinta, con vari momenti del passato come la morte di Atatürk, la seconda guerra mondiale, le ondivaghe siampatie per la Germania o per il resto d'Europa, soprattutto la Francia, il primo dopoguerra, significativi sia per il paese che per le vite individuali di un gruppo di personaggi che si raccontano in prima persona, attraverso lettere, diari e riflessioni.

L'inizio è folgorante: la faticosissima organizzazione di una recita in una scuola elementare di paese, con cui il maestro Dündar vuole celebrare l'avvento della nuova Turchia secondo le indicazioni del Grande Padre. Dündar è una patetica e bellissima figura di insegnante di campagna idealisticamente seguace della rivoluzione, convinto assertore dell'importanza dell'istruzione, della modernizzazione, tanto da intervenire attivamente quando può per convincere i genitori riottosi a fare studiare i loro figli. E figlie, ovviamente: perché l'emancipazione e l'occidentalizzazione delle donne sono fondamentali nel programma kemalista. Ma per studiare bisogna spostarsi, lasciare l'anonima cittadina di campagna per andare a Ankara, che è il polo politico e rappresentativo della nuova società. Questi bambini sono il nucleo del romanzo, di cui seguiamo le vicende, gli sporadici incontri, i nodi relazionali, le scelte, i successi e gli insuccessi, che procedono di pari passo con notizie prese dai quotidiani che ci permettono di seguire le complesse vicende nazionali e internazionali di quegli anni complicati. Anche se non prese parte al conflitto mondiale, la Turchia ebbe un ruolo non indifferente e l'eco degli avvenimenti mondiali arriva fin nelle campagne, mentre la vita nella capitale ne è influenzata. Molti sono i personaggi di contorno, alcuni anche storici, e acutamente descritto il percorso dall'idealismo rivoluzionario alla realtà dei conflitti di potere, della corruzione, dell'ipocrisia del mondo politico che portarono al colpo di stato del 1960.  

L'unica ragazza che continua a studiare è Aysel, ambiziosa e determinata, con una famiglia che non la sostiene particolarmente perché in fondo tutti si aspettano che prima o poi rientrerà nei ranghi e si sposerà abbandonando le fantasie di emancipazione. Atatürk voleva le donne libere e occidentalizzate, ma la fatica di esserlo senza dare adito a scandalo né pettegolezzi in una società poco adatta a accoglierle è tremenda. Aysel ha un fratello che entra nei Lupi Grigi, gruppo di simpatie naziste e conservatrici, e le fa da custode manesco e severissimo (quando ha tempo). Il confronto con l'Occidente è continuo, per Aysel soprattutto con la Francia di cui studia la lingua e segue scrittori e movimenti culturali. A un certo punto ottiene una borsa di studio per un anno a Parigi, ma non se ne parla e alla fine rimaniamo con molte curiosità insoddisfatte, tanto che le parti in cui seguiamo le riflessioni del suo personaggio nella camera d'albergo risultano le meno interessanti perché non si riesce a comprenderne appieno le motivazioni.  

Si tratta di un romanzo appassionante ma molto difficile da seguire perché richiede una certa conoscenza della storia della Turchia del '900. Ci sono lodevoli anche se sparse note del traduttore, ma ci vorrebbe ben altro per aiutare il lettore di questo libro interessantissimo in potenza, oggi in particolar modo, ma praticamente ostico e scoraggiante. Non si capisce perché L'Asino d'Oro, avendo compiuto questa notevolissima impresa, non abbia investito ancora un po' in qualche pagina di prefazione o di postfazione, perché è vero che c'è internet e Wikipedia ma lo sforzo necessario per contestualizzare le vicende è grande. Anche due parole sull'autrice e gli altri due volumi della trilogia avrebbero aiutato, anche solo per spiegare i punti in sospeso. E come sempre ho provato un'enorme ammirazione per il traduttore Fulvio Bertuccelli che ha affrontato questo titanico impegno, ma il risultato finale in certi punti è davvero insoddisfacente, come se il testo non fosse stato rivisto, tanto che risulta difficile capire il senso.   
Per cui il mio consiglio di lettura è: astenersi curiosi e perdigiorno, ma se (come me) amate la Turchia, la conoscete un po' e ne avete seguito le vicende, allora Coricarsi e morire è un libro fondamentale. Con la speranza che gli altri due seguano presto.               
  

giovedì 8 febbraio 2018

Un sì senza se e senza ma, un ma con molti se, un se (se proprio ci tenete)

Hjálmarsson Jón R.con la sua traduttrice Silvia Cosimini
A buon intenditor poche parole, e non ne userò troppe per questi libri. Giusto un modestissimo parere del tutto personale.
Cominciamo con l'Atlante leggendario delle strade d'Islanda a cura di Jón R.Hjálmarsson. Il titolo è estremamente attraente ma il contenuto delude. Si tratta di un repertorio piatto e sbrigativo di una serie di leggende ridotte all'osso collegate a varie località. Nessun fascino né fantasia. Consigliato se state per partire per l'Islanda e volete portarvi dietro qualcosa da leggere in fretta sui luoghi nominati. Il vero pregio di questo libro è la traduzione di Silvia Cosimini, come sempre perfettamente perfetta. E la ripetizione è
voluta.

Stanze sul mare di Franco Iannelli è l'esatto opposto. Leggetelo se vi piace la scrittura ricercata, elaborata, che cresce su se stessa e copre con il suo compiacimento significato e tensione narrativa. Undici racconti di vite alla ricerca di un significato, in un mondo difficile che li respinge. Il mondo è quello di oggi, con tutte le sue contraddizioni, bruttezze e bellezze in cui ci imbattiamo ogni giorno. Consigliato se scrivete o volete scrivere e cercate esempi di ricercateza da seguire (o magari da evitare).

E per rifarsi con un libro di estrema gradevolezza, accogliente come un salotto inglese (anche se si svolge in Liguria, nei pressi di Lerici), quasi un oggetto alieno sia per le tematiche che per le vicende Un incantevole aprile di Elizabeth Von Arnim. Quattro londinesi di varia estrazione sociale e variamente scontente della loro vita affittano un castello medievale in Liguria e vanno a trascorrevi un mese. Evidente, no? Chi di noi non l'ha mai fatto in un momento di particolare stress? Comunque funziona, la natura bellissima, i fiori, il clima, in una parola l'Italia attirano altri visitatori al castello e risolvono tutti i problemi. Deliziosamente obsoleti i rapporti tra le quattro donne e i maschi che gli ronzano in giro. Von Arnim scrive in maniera così scorrevole, naturale, elegante che non si può che seguirla e lasciarsi andare alle malie dell'incantevole aprile ligure. Consigliatissimo se avete avuto una settimana pesante e volete svagarvi, divertirvi e arrivare alla fine perfettamente soddisfatti. Traduzione di Luisa Balacco.