venerdì 5 maggio 2017

La storia di Decembrina, da "Il cuore in ballo"


Storia di un capitello della chiesa di San Rocco a Bolzaretto Superiore
              Allora, San Rocco oggi si presenta come la solita chiesa barocca di provincia, con portale a
Bolzaretto Superiore
volute in mattone a facciavista, mezze colonne addossate, sul timpano la figura scolorita del santo con cane e piaga, e dedica su una fascia di marmo: Sancto Rocho dicatum, anno Domini MDCLXXVIII. Però all'interno sopravvivono affreschi medievali, in particolare una Santa Isabellina da Bolzaretto Superiore, carina come una studentessa di liceo, in abiti da pellegrina, bordone sacca e cappello. E poi ci sono i resti di un chiostro romanico inglobati nel cortile della canonica: sette colonne di marmo di Brossasco che fiancheggiano le finestre di una veranda, e un pozzo. Non tanto rispetto alle meraviglie sparse per la regione, ma abbastanza da inorgoglire gli abitanti di Bolzaretto. Abbiamo una grande storia alle spalle, pensano tutti, autoctoni e immigrati. Eravamo già civili e sensibili all'arte nei tempi bui del medioevo. Possiamo sembrare rustici con le nostre tre emme, meliga mosche e merda di vacca, ma guardiamo un po' al passato.


Guardiamoci pure. Il pozzo non è granché, giusto la vera sormontata da un'asta di metallo piegata a arco con quattro rosette smangiate e il gancio per il secchio. Le lastre di rivestimento non sono quelle originali, sono state sostituite molte volte nel corso dei secoli e quelle attuali risalgono al massimo a metà Ottocento. Ma le colonne, eh be', sono un'altra cosa. Tre tortili, due lisce e due percorse da tralci di vite a rilievo. E finalmente parliamo dei capitelli. Qui la fantasia dei bolzarettesi del passato si rivela in tutto il suo splendore. Un serpentone che si mangia una capra, una chimera con le zampe in bocca, un faccione da Carnevale con le orecchie a sventola, un diavolaccio zannuto con un lucertola sulla fronte, vendemmiatori con le gerle colme, un orante in braghe corte e cappellino tondo e la perla finale, una vecchia sdentata a bocca aperta che in una mano tiene un uovo e nell'altra un mazzo di spighe. Facce come questa della vecchia, le avreste potute vedere ogni domenica alla messa grande in parrocchia nei tempi belli prima che venisse riformata, quando don Ferruccio con i suoi chierichetti ci dava dentro di prediche e turibolo e l'altare lo costringeva ancora a voltare le spalle ai fedeli e si parlava in latino. Adesso, boh, neanche la messa sembra più la stessa cosa, con tutti quei segni di pace e canti privi di poesia e donne che leggono le Sacre Scritture e chierichette femmine. Infatti, la vecchia del capitello non frequenta più tanto le funzioni.


Nessuno frequenta più tanto le funzioni. Don Ferruccio tuona e si lamenta, ma i bolzarettesi, sempre meno autoctoni e più immigrati, se ne impippano e preferiscono divertimenti laici la domenica mattina. Pensare che, tanto per dire, sui capitelli della canonica sono stati scritti almeno tre libri, per quel che gli risulta. Un esempio di iconografia romanica, don Alberto Issignani, Savigliano 1848; Il chiostro dimenticato, prof. Giovanni Bauchiero, Cuneo 1883; e Il mistero dei capitelli, Achille Saverio Sobrero, Torino 1934. Don Ferruccio pensa sempre: se avessi tempo! Se non dovessi stare dietro a questi mezzi eretici con i loro eterni battesimi e matrimoni, i loro funerali e benedizione delle bestie e dei trattori, che poi per tutto il resto della vita vivono come bantù nella savana! Saprei ben scrivere io un libro sulla chiesa di San Rocco. Su Santa Isabellina, che se ne dicono tante, su quel bel chiostro e le sue colonne. Quando andrò in pensione, chissà… Intanto confessa i pochi che ancora si ricordano di lavarsi l'anima di tanto in tanto, tiene i corsi per fidanzati, quelli per comunicandi e cresimandi, con le mani tese per trattenere i fedeli e aperte per lasciarli andare quando capisce che non c'è più niente da fare. Non è rassegnato, Dio non voglia, ma realista. Ogni volta che passa nel cortile di San Rocco lancia un'occhiata alla chimera, alla vecchia, all'orante, come a dire: aspettate, prima o poi troverò il tempo anche per voi.



Ma la vecchia, se potesse dire la sua, preferirebbe mangiare rape crude e camminare a piedi nudi su un tappeto di bottiglie rotte che godere dell'interesse di don Ferruccio. Tutto quello che chiederebbe, se potesse muovere le labbra di pietra, sarebbe di essere lasciata in pace, che già essere stata immobilizzata a braccia alzate, con quell'uovo fragile che non può mollare e quelle spighe pungenti in mano, la irrita da una decina di secoli. Lei che in vita faceva di tutto per passare inosservata senza mai riuscirci. Lei che si faceva solo i fatti suoi, e mai si sarebbe sognata di scrivere alcunché su don Ferruccio. Anche perché non sapeva scrivere.


Aveva però delle capacità molto speciali. Prima di tutto cantava benissimo, con una voce forte
e intonata, di timbro scuro, profondo. Sapeva più canzoni lei che l'intera popolazione del villaggio. E le piaceva essere ascoltata. C'era sempre qualche sciocca ragazzetta o un monello moccicone a perdere tempo prezioso sulla panca accanto alla porta della sua capanna, con la bocca aperta e il labbro pendulo e la mente svagata dietro alle fole che le uscivano dalla gola. Mica solo canzoni antiche, tramandate dai vecchi, anche quelle che si inventava lei, piene di storie di sangue e d'amore, storie che ispiravano pensieri vaganti. Poi faceva da mangiare in un modo diverso da ogni altra donna. Raccoglieva erbe e fiori, come tutte, ma invece di usarle per guarire le mischiava con farina uova e sugna per cuocere certe frittatine e tortine e polentine che facevano sognare il paradiso a qualsiasi stomaco, incantavano signori e poveracci, rendevano il pasto quotidiano spinoso come un riccio di castagna a chiunque le avesse provate una volta. Per non parlare dei consigli che dava a chi volesse ben apparire. Sapeva attorcigliare le trecce e sbiancare i denti, rinfoltire le barbe e far diventare rosse le guance pallide, dava lezioni ai giovanotti grezzi che non osavano parlare alle ragazze e alle ragazze timide che scappavano davanti ai giovanotti.


E poi le galline. Ne aveva almeno trenta, lustre e grasse, bestie petulanti, piene di spocchia, pretenziose, sempre lì a chiocciare e starnazzare e cacare in giro. La cosa più ridicola è che la padrona gli cuciva certe collarette, certe cuffiette, certi copripancia, con gli stracci che trovava nei rifiuti e i ritagli delle sue camicie. Aveva anche una coroncina di noccioli di ciliegia lisciati e colorati che piazzava a turno sulla testa delle bestie, ciondoloni attorno alla cresta, come premio a chi faceva più uova secondo suoi complicati calcoli di mesi e stagioni. E le galline non si ribellavano, anzi, sembravano ben contente di farsi addobbare come buffoni da mercato. Bisogna dire che le sue uova, che vendeva con tante cerimonie che sembravano pietre preziose, erano grosse e pulite e talvolta avevano due tuorli gialli come il sole.


Si chiamava Decembrina. Era la persona più allegra del villaggio, piena di faccende gaie e idee strampalate. D'inverno, quando la vita era dura, la terra gelava, i poveri grattavano le rape nel terreno con le unghie rotte e i cani correvano a branchi ululando nel buio, lei se ne stava nella sua capanna umida avvoltolata in uno scialle rosso e faceva figurine di argilla che sembravano vive. Le cuoceva nel focolare, attorno al paiolo dove bollivano radici e miglio, poi le riuniva a creare piccoli mondi insensati. A volte, d'estate, ne regalava qualcuna alle ragazze innamorate che arrivavano la sera a chiederle aiuto per incantare l'amato. Nessuno l'aveva mai sentita lamentarsi perché era sola, né per la fame o i dolori nelle ossa.


Era arrivata nel villaggio già quasi vecchia, una sera d'ottobre con le prime nebbie fitte e le foglie gialle ancora sui rami. Si era messa a dormire sotto un portichetto di legno che fiancheggiava la chiesa di San Rocco, mezzo marcio e cadente. La mattina dopo i primi fedeli l'avevano trovata lì, addormentata negli stracci come una regina nel suo letto di pelliccia, con un sogno spesso e piacevole che le passava sul volto. Qualcuno le aveva dato un calcio per farla alzare, ma Decembrina si era girata e aveva continuato a sognare. Più tardi tutti avevano potuto vederla bene in faccia, e le donne si erano rassicurate davanti al suo sorriso già sdentato, alle rughe nere di sporcizia che le spaccavano le guance. Gli uomini si erano voltati dall'altra parte, la curiosità subito spenta. Ma non era passato molto tempo che si era installata in una capanna in rovina ai margini dell'abitato, aveva alacremente riparato il tetto e i muri. Viveva di niente, di verdura appassita e avanzi puzzolenti raccolti fuori dalle cucine altrui. Poi, con la primavera, era rifiorita anche lei. Riusciva a essere pulita nel corpo e negli abiti, trasformava qualsiasi erba in cibo appetitoso, e a Pasqua un'anima buona le aveva regalato un paio di pulcini. Decembrina aveva cominciato a cantare.


Nessuno era mai riuscito a scoprire qualcosa sul suo passato. Chi la interrogava riceveva in risposta sorrisetti evasivi, affermazioni iperboliche. Una volta raccontava di essere stata allevata a corte tra piume e fagiani arrosto, un'altra di avere perso marito e figli in un'epidemia di dissenteria verminosa, o ancora che l'avevano rapita i saraceni, era fuggita senza riscatto e non ricordava più il suo paese d'origine. Ma parlava come gli abitanti del luogo, non poteva venire da lontano. Per farla breve, in qualche mese tutti si erano abituati alla sua presenza e avevano smesso di farle domande. Neanche si stupirono di come si era sistemata, del pollaio e dell'orticello che erano spuntati accanto alla capanna, nessuno aveva reclamato quei pochi metri di terra. Era diventata uno degli elementi della realtà quotidiana del villaggio, né più né meno della fontana in piazza, dell'abbeveratoio e della campana della chiesa.


Il cuore in ballo lo trovate qui

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