lunedì 6 febbraio 2017

Una storia potente e spietata nella Calcutta degli anni '60: Neel Mukherjee, La vita degli altri

Neel Mukherjee è uno scrittore nato a Calcutta nel 1970, ma di formazione occidentale, che scrive in
inglese e vive a Londra. La vita degli altri è il suo secondo successo letterario, dopo A life apart.
Devo dire che ho iniziato questo romanzo con un po' di diffidenza: troppi strilli al capolavoro, paragoni nientemeno che con Tolstoj e Mann, per quella che si annunciava come l'ennesima saga familiare, sia pur esotica. L'autore ha studiato a Calcutta in una scuola cristiana, la Don Bosco, poi a Oxford e Cambridge, e adesso insegna inglese e l'inevitabile scrittura creativa. E questo si sente fin dalla prima scena che è un pugno nello stomaco al lettore, senza motivo né contesto, e dalla ridondanza fastidiosa di termini bengali non tradotti  per fare colore locale o per rendere più incomprensibili, aliene, le abitudini indiane. A questo proposito un avvertimento: io l'ho letto in ebook come faccio sempre, ma ho amaramente rimpianto una versione cartacea che mi permettesse di consultare il glossario posto in fondo al libro e senza collegamento con il testo, il che rende la lettura nell'ebook quasi impossibile.
Peraltro il glossario è da leggere per se stesso, perché è divertente, cattivello e molto esauriente. Inoltre, i personaggi sono decine e all'inizio c'è un indispensabile albero genealogico assolutamente invisibile sul kindle.

L'ho letto perché l'India mi manca tanto, perché Calcutta è una città davvero fuori dal comune, e poi perché mi interessano sempre molto i libri che parlano dei margini dell'impero - dei margini comunque e sempre. E per un verso ho trovato le mie paure confermate: si tratta di un romanzo molto ambizioso, enciclopedico, didattico, didascalico, stile "tutto quello che avreste voluto sapere su Calcutta e che non avete mai osato chiedere", anzi, sull'India, che all'inizio mi pareva sostanzialmente fallito perché fin dalla prima pagina ti dice già che cosa pensare, non lascia libertà al lettore (esattamente come nelle gerarchie familiari che descrive), è come se gli dicesse continuamente: guarda che roba!, è troppo evidentemente scritto per occidentali, con l'intento programmatico di confermarli nella loro convinzione di essere gli unici civili e che solo i loro valori hanno senso.
Non è che l'autore non riesca a fare quello che si propone, ma per eccesso di zelo o entusiasmo e soprattutto di parole, per il lettore è come mangiare cibo già masticato e digerito, la sua opinione viene pilotata, dice tutto lui, non gli lascia niente da elaborare.
C'è un eccesso di particolari, soprattutto spiegazioni, e tutta questa sovrabbondanza è resa molto faticosa dall'inevitabile andirivieni temporale che sembra ormai obbligatorio per qualunque autore, pena l'apparire ingenuo. In certi punti però, e non dico di più per non fare spoiler, questo modo di narrare particolareggiato e analitico diventa quasi insopportabile non per noia o inefficacia, ma proprio per la forza spaventosa dell'orrore rappresentato.

 E man mano che andavo avanti nella lettura sono stata convinta e conquistata dalla forza della storia della famiglia Gosh, borghesi di estrazione, industriali della carta, incastonata circolarmente tra due scene di disagio sociale risolte in modo diametralmente opposto - la disperazione individuale e e la ribellione organizzata. Un po' di fatica iniziale non è niente quando, come in questo caso, vale veramente la pena di andare avanti. 

L'azione si svolge a Calcutta negli anni '66-70, con parti ambientate nelle foreste dove vivono le popolazioni tribali del Bengala Occidentale e dell'Orissa. Si tratta di un affresco cupissimo, con un crescendo che sfocia nella tragedia, in cui non si salva niente della cività e della storia del Bengala, con una chiarissima ambizione enciclopedica. Nessun aspetto della società è trascurato: la religione (per una volta si tratta non di Islam ma di induismo, di cui comunque sono messi in luce gli aspetti deteriori - superstizione, gerarchia, rigidità ecc, tutto quello che ci vuole per far sentire superiori i cristiani), i rapporti familiari e sociali, gli affari, la polizia, la politica, il sistema scolastico, ce n'è per tutti. C'è la famiglia tradizionale, le abitudini matrimoniali, le caste, le festività religiose di quartiere. Le prostitute. Le differenze sociali, i poveri e i ricchi. Ci sono i Naxaliti e il terrorismo, la droga, le lotte operaie, gli scioperi, il sindacato, il partito comunista CPI (M). C'è Calcutta, ma senza folklore turistico, niente ponte di Howra né tempio di Kali né Victoria Memorial, ma piuttosto fabbriche, centrali di polizia e soprattutto la casa dove vive la famiglia Gosh su cui si incentra l'azione. I proprietari terrieri avidi, la miseria e la fame dei braccianti senza terra. C'è la Partition e il Bangladesh, e i relativi problemi di spostamento di popolazione e territori che si trovano improvvisamente oltre frontiera. C'è la crudeltà e la violenza, insieme e separate. Ogni argomento affrontato (dalla matematica agli affari, dalla politica alle tecniche terroristiche, ecc) viene sviscerato e riempito di tecnicismi.

Quello che all'inizio sembra un inutile ma obbligatorio vezzo, l'alternanza tra i capitoli in terza persona e quelli in prima persona di Supratik il Naxalita, in realtà si rivela poi come un modo molto efficace per costruire il personaggio, il più interessante e sfaccettato. Gli altri personaggi sono una folla, tra cui è difficilissimo districarsi dato che oltretutto appaiono talvolta con il nome intero, talatra con un diminutivo o il nome di parentela usato in famiglia. Tutti vivono sotto lo stesso tetto in una grande casa di quattro piani, con una struttura upstairs downstairs più rigida e gerarchica che a Downton Abbey. I vari nuclei familiari costituiti dalle generazioni conviventi sono veri e propri  verminai nascosti. Le generazioni più vecchie sono superstiziose (la maledizione della suocera che fa della nuora vedova una reietta), disoneste, quella di mezzo, costituita da Priyo, Chraya, Adinath, Bhole e Somnath, comprende i figli ubriaconi, incestuosi, donnaioli, pervertiti e scemi, mentre tra i nipoti troviamo terroristi, drogati e geni matematici. I personaggi femminili sono un po' stereotipati, c'è la madre viscerale, la zitella inacidita e malevola (non si è mai sposata perché di carnagione troppo nera e con un occhio storto, ma in realtà nasconde un segreto ben più nero della pelle), le prostitute, le donne di famiglia con l'ossessione per i gioielli, fonte di meschine invidie tra cognate ma anche l'unico segno tangibile della loro importanza, l'unica garanzia del loro valore. E c'è il servitore fedele, la cui vita è talmente intrecciata a quella dei padroni che diventa impossibile distinguere i reciproci confini.

La scrittura è molto compiaciuta, dilatata, un po' sfinente, troppo analitica, immobile. L'autore è innamorato delle proprie parole, ogni tanto viene voglia di dirgli "dai, sbrigati un po' che ho da fare", però è un narratore potente e se si riesce a lasciarsi andare e non stare tanto a preoccuparsi di riconoscere ogni volta le decine di personaggi che corrono su e giù per i quattro piani di casa Gosh, si viene presi e risucchiati dalla fortissima raffigurazione di come la famiglia può diventare prigione (metaforicamente rappresentata dalla grande casa con le sue rigide divisioni in piani) da cui si può fuggire solo distruggendola. Come ho già detto, all'inizio può sembrare la solita zuppa di famiglia con le sue fisse compiaciute, i suoi vezzi asfittici, ma a poco a poco ci si rende conto che è una critica potente e corrosiva a una società dove la mobilità sociale è impossibile, le differenze invalicabili e la spontaneità è un crimine. Gli affari vanno male per ambizioni eccessive, incapacità, calcoli sbagliati, soffocante immobilismo sociale, corruzione, fatalità. E' i Buddenbrook che alla fine diventa Casa Usher. 
Traduzione di Norman Gobetti.
Mi resta un dubbio rispetto al titolo, in inglese The lives of others e in italiano La vita degli altri. A me sembra più significativo il plurale, ma forse si è voluto diversificare il titolo per non confonderlo con quello del film del 2006 Le vite degli altri. E a proposito di film, se volete vedere un po' di Calcutta, il ponte, il fiume e la stazione ferroviaria che sono luoghi topici della città, non perdete il bel film del 2016 Lion - La strada verso casa di Garth Davis.

2 commenti:

Orlando Furioso ha detto...

Che recensione meravigliosa!
L'ho letta d'un fiato ammirando la tua scrittura e invidiando non poco la tua capacità di comunicazione e, contemporaneamente, di sintesi.
Grazie!

consolata ha detto...

Grazie Orli, sei un amico. A me sembra un po' ripetititva e sbrodolata ma se sapessi di che lacrime gronda e di che sangue! L'ho letto mentre preparavo la presentazione di MG e ho fatto una gran fatica.Per cui ti ringrazio infinitamente per queste parole di incoraggiamento. Il libro è bello davvero, di quelli che ripagano ampiamente degli sforzi di attenzione che richiede. E se per caso hai un po' di nostalgia dell'India, è un antidoto perfetto ;-)