giovedì 22 settembre 2016

Lo scrittore e l'arcangelo Gabriele

Pubblico questo estratto dal mio romanzo Il cuore in ballo perché sto leggendo un libro molto lungo e non riuscirò a recensirlo per un bel po'. Quindi, per vivacizzare il blog, beccatevi


Lo scrittore e l’arcangelo Gabriele
“Questo libro” disse lo scrittore Sebastiano Orlandi al sussiegoso intervistatore che gli agitava contro una matita appuntita “è la rappresentazione di una vicenda immaginaria ma possibile in un mondo impossibile ma reale, o, se vuole, di una vicenda realmente accaduta in un altro mondo”.
“Ah, vuole dire che si è ispirato alla realtà per metterne in evidenza l’impossibilità?”
“In un certo senso, questa è proprio l’operazione che ho fatto. In ogni caso, la realtà è sempre irreale, come d’altra parte, nulla è impossibile nel reale, non è vero?” Scoccò un sorriso accattivante alla telecamera. “Purtroppo, di questo libro non si può parlare con chi non lo ha letto, è difficile non banalizzarne il contenuto spiegandolo”.    
Dalla cabina di regia segnalarono che stava per partire la sigla. Il giornalista lo ringraziò della partecipazione al programma e dette appuntamento ai telespettatori per la puntata successiva.

Uscendo dagli studi televisivi, Sebastiano si rallegrò di non aver preso la macchina, perché era una bellissima serata e avrebbe potuto tornare a casa a piedi, guardando le vetrine del centro e godendo della sensazione di partecipare alla vita della città. Guardava soprattutto le vetrine dei librai, per vedere se esponevano il suo romanzo, il quinto ormai. Ne era particolarmente fiero. Le critiche erano state tutte positive, se ne era parlato molto come di uno dei libri più interessanti degli ultimi sei mesi, erano già in corso parecchie traduzioni. Lui era convinto che lo meritasse, sentiva di averci messo cose che gli stavano a cuore da anni e che fino a quel momento non avevano trovato l’espressione adatta. Adesso la cattedrale di parole costruita con fatica e entusiasmo era lì, esposta in tutte le vetrine, con la sua bella copertina blu scuro e oro, senza fronzoli, solo il nome dell’autore e il titolo, ‘La voce dell’angelo’. Nella dolce serata di fine maggio il suo cuore esultava a vedere che la gente entrava in libreria, pronta a spendere trentamila lire per sapere quale fosse il messaggio portato dalla voce angelica.
Ridacchiava tra sé al pensiero di qualche passo particolarmente riuscito, sicuro che sarebbe piaciuto ai lettori, perché era così bello e significativo che nessuno poteva leggerlo senza rimanere colpito. La storia, insieme semplice e complicata, coinvolgeva esseri umani e soprannaturali in una ricerca delle stesse risposte introvabili. Un’opera, modestia a parte, geniale.

A casa Elena, sua moglie, lo aspettava per cenare.
“Sei in ritardo, stavo per cominciare da sola. I bambini hanno già mangiato, stanno guardando la televisione nella loro stanza”.
La baciò su una guancia e si tolse la giacca. Provava sovente insofferenza verso di lei, ma la soffocava perché in quel momento, tutto proiettato su altri interessi, non poteva nemmeno pensare di rimettere in discussione qualcosa della sua vita privata. A tavola si dilungò sulla trasmissione televisiva. Elena non parlava mai del proprio lavoro, si faceva un dovere di dimostrarsi interessata al suo, ma forse sotto sotto covava dei rancori. Lui non si sforzò di fare domande a sua volta. Salutò i bambini dalla porta e andò a dormire presto con un paio di riviste che parlavano del suo libro. Dormì bene, fece dei sogni gradevoli.

La mattina dopo non aveva impegni, andò dal barbiere e si fece fare anche una manicure. Al ritorno la segreteria telefonica gli comunicò che l’editore l’aveva chiamato.
“Hai visto il programma ieri sera, Edoardo?” gli chiese quando finalmente riuscì a raggiungerlo al telefono. Gli dava ancora un brivido di soddisfazione chiamarlo per nome, da poco tempo era stato ammesso nel circolo ristretto degli amici personali. “Non ho esagerato nelle fumoserie? Quel Piras mi dà sui nervi. Forse mi sono lasciato un po’ prendere la mano, ma non reggo la sua prosopopea”.
“L’ho fatto registrare, appena ho un attimo di tempo lo guardo. Spero che tu non abbia irritato Piras, è potente e vendicativo e non gli piace essere preso in giro”.
Il tono era un po’ seccato. Preoccupato di avere fatto un passo falso, si affrettò a cambiare discorso.
“Perché mi volevi parlare?”
L’editore parve esitare.
“Hai ricevuto qualche lettera, o telefonata, diciamo così... strana, negli ultimi giorni?”
“Strana?” Sebastiano era interdetto. “Che cosa intendi per strana?”    
La voce dall’altra parte dell’apparecchio era sempre più esitante.
“Non vorrei farti preoccupare, ma oggi mi è arrivata una lettera minatoria in cui un certo ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’ ti accusa di blasfemia e sabotaggio della morale per le tesi che sostieni nel romanzo, in particolare per alcune frasi che l’angelo pronuncia nel capitolo nove e nel capitolo sedici”.
Sebastiano, fino a quel momento in piedi accanto alla scrivania, si sedette di schianto nella poltrona girevole. Scoppiò in una risata.
“In che cosa consistono le minacce? Mi vogliono far fare un bagno nell’acqua santa?”
“Minacciano di ucciderti se non farai una pubblica ammenda. Anche di fare attentati alla casa editrice, a tutte le librerie che esporranno il tuo libro. Sono contento che tu la prenda così. Avevo paura che ti spaventassi, avessi qualche reazione isterica. Se la cosa ti fa ridere, benissimo. Penso che potremo sfruttare questo fatto pubblicitariamente, se sei disposto a collaborare. Telefono subito a Vannucci del ‘Giornale d’informazione’, e domani mattina ci troveremo un bell’articolo. Tu intanto fai attenzione alla posta e alle telefonate. Informami se ci sono delle novità”.

A pranzo non c’erano né Elena né i bambini. Mangiare da solo gli piaceva, si riscaldò un piatto di spezzatino avanzato che mangiò guardando il telegiornale. Dopo pranzo si sedette in poltrona con un giornale. Era completamente immerso nella lettura quando il telefono squillò.   
“Lo scrittore Sebastiano Orlandi?” disse una voce femminile con un leggero accento settentrionale. Sembrava una ragazza giovane, quasi adolescente, ma il tono era determinato. “Sono un portavoce del ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’. Penso che abbia già parlato con l’editore Edoardo Mostaccio e sia stato messo al corrente del nostro comunicato. Comunque, le ripeto il contenuto: lei deve immediatamente far ritirare il suo libro ‘La voce dell’angelo’, fare una pubblica autocritica delle sue parole bugiarde e offensive, se no la giusta punizione per il suo orgoglio la colpirà senza possibilità di scampo”.
Riattaccò senza aspettare risposta. Sebastiano si trovò in mano il ricevitore muto. Rimase perplesso a guardare fuori dalla finestra. Stava per scoppiare un temporale, il cielo era diventato nero, nella piazza sotto casa sua si vedeva la gente correre spinta dalle raffiche per sfuggire alle prime gocce che cominciavano a spiaccicarsi con violenza sull’asfalto caldo. Si alzò per chiudere la finestra e rimase in piedi dietro ai vetri fino a quando la pioggia si riversò furiosa nella piazza.

Il pomeriggio trascorse lento tra qualche tentativo di lavorare a un articolo che doveva consegnare entro due giorni e lunghe pause passate a meditare guardando dalla finestra. L’acquazzone era terminato, il sole splendeva di nuovo benigno sul selciato pulito e sui passanti che attraversavano con calma la piazza intasata di macchine e autobus. Non riusciva a concentrarsi, alla fine strappò tutto quello che aveva scritto. Quando Elena tornò con i bambini si sforzò di apparire di umore normale, chiacchierò con loro davanti a un pollo comprato in rosticceria. I bambini erano garruli, Elena nervosa. Sebastiano aveva una mezza idea di parlarle della telefonata, poi cambiò idea e si mise a guardare un dibattito sull’immigrazione illegale alla televisione. Elena fece una telefonata di ore. Era già addormentata quando lui la raggiunse a letto.

Il ‘Giornale d’informazione’ del giorno dopo taceva sull’argomento. Sebastiano telefonò a
Mostaccio, ma non era in ufficio e nessuno sapeva dove trovarlo. Solo l’indomani riuscì a parlargli. Sembrava molto preoccupato.
“Anch’io ho ricevuto una telefonata. Richiamo subito Vannucci. Non c’è nessun pericolo reale, è ovvio, ma è meglio dare pubblicità alla cosa”. 
Sebastiano doveva finire l’articolo a tutti i costi. Si chiuse nello studio proibendo a Elena e ai bambini di disturbarlo. Ne riemerse più tranquillo, disposto a dedicare la sua attenzione alla famiglia. Andò a dormire presto, e sognò sogni affannati.
Finalmente l’articolo era sulla pagina della cronaca, con una sua fotografia sorridente accanto a un’attrice americana, che risaliva a qualche anno prima e lo faceva più bello che in realtà. Non era un grosso articolo, ma la fotografia lo rendeva cospicuo. Sebastiano non si era ricordato di avvertire Elena, così quando a metà mattinata lei gli telefonò dall’ufficio agitatissima si sentì subito in colpa e le rispose più bruscamente di quanto avrebbe voluto. Minimizzò, le fece intendere che si trattava di una manovra pubblicitaria. Alla fine Elena era traquillizzata, ma in compenso lui dovette uscire a fare due passi per calmarsi.

Camminando nelle strade poco affollate del quartiere residenziale, prese scrutare i volti delle persone che incrociava. Nella piazza sotto casa sua c’era una grande cartolibreria dove il suo libro aveva occupato per settimane la posizione d’onore. Di solito lanciava un’occhiata compiaciuta ogni volta che passava davanti, ma quella mattina volse il viso dall’altra parte. Immaginò un attentato al negozio: un gran boato, la vetrina sventrata, i commessi che uscivano urlando, sanguinanti, accecati dalle schegge, qualche corpo abbandonato in terra tra il fumo e i detriti, le sirene delle ambulanze e della polizia, la gente che faceva ressa sul marciapiede e poi tutti che si voltavano verso le finestre del suo appartamento in silenzio, un’espressione di rimprovero su centinaia di volti, dita tese a indicare i corpi sul pavimento e lui lì sul balcone, in piena vista, nudo, colpevole, assassino...
Per strapparsi a quella fantasia entrò in un bar. Mentre sorseggiava un succo di pomodoro al bancone il suo sguardo incrociò casualmente nello specchio quello di una ragazza seduta a un tavolino. Non finì di bere e pagò in fretta. Prima di uscire le gettò ancora un’occhiata che lei ricambiò fissandolo dritto negli occhi. 
A casa lo aspettava una brutta sorpresa. La porta d’entrata era forzata, l’appartamento un caos, il contenuto di cassetti e armadi gettato a terra, le librerie rovesciate, molti soprammobili rotti, persino l’imbottitura di poltrone e divani sventrata. Solo il suo studio non era stato toccato, ma sulla scrivania c’era una copia del suo libro, bruciata e ancora calda, le pagine completamente divorate dal fuoco, la copertina quasi intatta. Accanto, una grande busta gialla senza intestazione. Ne trasse un messaggio composto con ritagli di quotidiani: ‘Questo è solo l’inizio per dimostrarti che facciamo sul serio. Sei ancora in tempo per fare come ti abbiamo detto, ma fai in fretta’.
Telefonò al pronto intervento dei carabinieri, poi avvisò il portinaio che arrivò trafelato. Né lui né i vicini avevano visto niente di insolito. Mentre aspettava controllò se era stato rubato qualcosa. Non mancava nulla, ma i danni erano ingenti. Ai carabinieri dovette raccontare del messaggio sulla scrivania e anche di quelli precedenti, perché dopo l’articolo della mattina non poteva più evitarlo.
Sul più bello i bambini tornarono da scuola e subito dopo rientrò Elena. La situazione si fece caotica. Solo nel pomeriggio, con gli sforzi uniti di tutta la famiglia, si riuscì a rimettere un po’ di ordine, ma i divani e le poltrone sfondati, le pareti macchiate, i vetri dei quadri rotti davano alla casa un’aria desolata. Arrivarono un paio di giornalisti e Sebastiano dovette rispondere alle loro domande. Cercò di avvisare l’editore, ma non lo trovò. Stanchissimi, cenarono in pizzeria. I bambini erano molto eccitati per l’avventura, per niente preoccupati né dispiaciuti delle distruzioni che non avevano risparmiato nemmeno la loro stanza. Elena, spaventata, aveva l’aria di pensare che la colpa era tutta di Sebastiano, il quale per parte sua prese un sonnifero e finse di addormentarsi nel momento stesso in cui posò la testa sul cuscino.

Il risveglio non fu piacevole per nessuno, ma i bambini se ne andarono a scuola contenti di avere qualcosa da raccontare ai compagni e ai genitori rimase da affrontare la squallida realtà del giorno dopo. Elena decise di andare a lavorare, Sebastiano restò a attendere il fabbro, il tappezziere e il decoratore. La mattina passò a rimediare i danni, in una ridda di telefonate e interviste. A mezzogiorno uscì a mangiare un panino al bar. Di nuovo incontrò lo sguardo scuro e intenso della ragazza del giorno prima, seduta a un tavolino davanti a una bottiglia di acqua minerale. Per un attimo pensò di affrontarla, chiederle chi fosse, ma poi ingoiò in fretta il panino e tornò a casa per riprendere il lavoro.
La stampa si allertò in massa, Sebastiano fu assediato per qualche giorno dai giornalisti. Le vendite del libro salirono alle stelle, la prima edizione andò esaurita. Dopo una settimana di quella vita, Elena prese i figli e si trasferì dalla madre che aveva una casa grande e tranquilla.
“Non possiamo far vivere i bambini in mezzo a questa confusione, e poi ho paura. Tra un po’ di tempo, con calma, decideremo il da farsi”.
Non gli propose di trasferirsi anche lui. Sebastiano non protestò, era d’accordo sul fatto che l’atmosfera non era adatta per i bambini. Non gli dispiacque rimanere solo. La prima sera andò a cena dalla suocera, poi si limitò a fare una visita veloce di tanto in tanto. I bambini gli mancavano, ma nello stesso tempo era un sollievo sentirsi intorno il silenzio e la calma.

Per qualche giorno non successe nulla. C’era una gazzella dei carabinieri parcheggiata in permanenza sotto casa sua, e non giunsero altri messaggi. Sebastiano si aggirava per la casa irrequieto, lavorava un po’, passava delle mezze ore sul balcone a guardare giù nella piazza il traffico e i pedoni. Cominciava a dimenticare i motivi della partenza di Elena e dei bambini, ma continuava a non desiderarne il ritorno. L’editore, tranquillo perché nulla era successo nella casa editrice né nelle librerie, era incline a minimizzare il pericolo.
“Si saranno spaventati delle reazioni della stampa” disse in una delle numerose telefonate. “I carabinieri stanno indagando nell’ambiente dei gruppi politici estremisti, certamente per un po’ non possono agire. Probabilmente, anzi, è tutto finito, hanno fatto il massimo che potevano fare, e solo perché ti hanno colto impreparato. Adesso non osano più fare nessuna mossa”.
Sebastiano era d’accordo.

Una domenica mattina, mentre si stava preparando a andare a pranzo dalla suocera, il telefono squillò. Al suo ‘pronto’ rispose una voce maschile giovane, con marcato accento lombardo.
“Caro Sebastiano, non hai proprio intenzione di pentirti, eh? Ho visto che è uscita la seconda edizione di quella porcheria che chiami romanzo. E’ un vero insulto al buon senso e alla nostra pazienza. Mi spiace dirti che siamo costretti a mantenere le promesse. Parlo a nome del ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’, naturalmente”.
Il messaggio terminò con una risatina amichevole. Sebastiano rimase con la cornetta in mano, sorpreso e incredulo. 
La gloriosa giornata primaverile trascorse serena tra il pranzo festivo e una passeggiata. La sera andarono tutti a mangiare una pizza. Il rientro nell’appartamento vuoto fu un sollievo, tutto era ordinato e silenzioso. Non aveva detto niente ai familiari della telefonata del mattino, né l’aveva comunicata ai carabinieri, non sapeva perché.
Però c’era qualcosa di stonato che non riusciva a individuare. Si accorse all’improvviso di una lama di luce che filtrava sotto alla porta dello studio. Per un attimo pensò di andare a chiedere aiuto ai vicini, poi si vergognò all’idea che probabilmente aveva lasciato la luce accesa la sera prima. Aprì la porta e rimase sulla soglia fermo come un sasso.

Seduto sulla sua poltrona, dietro alla sua scrivania, intento a smanettare sul suo computer c’era uno sconosciuto, un giovanotto muscoloso dal collo bianco e tondo che usciva dal colletto di una camicia azzurra, con una gran testa di riccioli biondi che alla luce della lampada a braccio apparivano circonfusi da un alone luminoso. Il giovanotto alzò gli occhi dallo schermo e gli scoccò un sorriso smagliante, mostrando una dentatura invidiabile per candore e regolarità.
“Salve, Sebastiano,” disse con voce calda e profonda, perfettamente impostata, priva di inflessioni dialettali, “stavo dando un’occhiata alle tue ultime fatiche. Gran bel lavoro, veramente. Devo ammettere che sai fare il tuo mestiere. E’ proprio un peccato che ogni tanto tu ti lasci andare a... diciamo, scrivere delle sciocchezze che non ti fanno onore”.
Sebastiano non trovò niente da dire. Il sorriso del biondo era così contagioso e aperto che quasi sorrise anche lui. Dovette fare uno sforzo per trovare un tono arrabbiato.
“Che cosa significa questa intrusione? Chi è lei? Che cosa fa nel mio studio, nella mia casa, perché spia nel mio computer?”
Ma in un certo senso la sua rabbia era finta, si sentiva stupido davanti a quel ragazzone bianco e roseo dall’espressione onesta e amichevole.
“Chi è lei?” ripeté, timido.
Il giovanotto scosse il capo. I riccioli lucenti gli ondeggiarono sul collo. Fissò Sebastiano con un intenso sguardo azzurro, senza più sorridere.
“Sono un tuo amico, sono quell’angelo di cui nel tuo romanzo parli come se lo conoscessi bene. Sono Gabriele”.
Tutta la timidezza di Sebastiano sparì. Si avvicinò bellicoso. La rabbia lo faceva balbettare.
“Le do la scelta, o se ne va subito con le buone o chiamo la polizia”.
Non se la sentiva di fare minacce più precise perché, anche da seduto, il tizio sembrava avere una stazza più da pugile che da angelo.
“E dica ai suoi amici del ‘Gruppo d’azione per il ripristino della moralità’ che ne ho abbastanza delle vostre mafiosate. Rischiate grosso a farvi vedere ancora da queste parti. La casa è sorvegliata, non so proprio come farà a uscire senza incappare nei carabinieri”.     
Si rendeva conto che le sue parole erano inadeguate, sembravano più il lamento di un bambino che ha subito una prepotenza che la legittima protesta del cittadino vittima di un sopruso. Per un attimo tremendo ebbe paura di mettersi a piangere.
“Non crederai mica che io abbia bisogno di passare per la porta d’ingresso! Non si è arcangeli per niente, no?” Fece un sorriso un po’ fatuo e un po’ modesto. “Figurati se ho a che fare con le iniziative di quei ragazzacci! Sono animati da buone intenzioni, devo ammettere che ci rendono qualche servizio, ma i loro metodi non riesco a mandarli giù. D’altra parte, fanno tante minacce, la voce grossa, ma i fatti sono modesti, devi ammetterlo. Un po’ di disordine, qualche quadro rotto, non mi dirai che te la sei presa per così poco? Poi non ho visto risultati della loro piccola spedizione. Il tuo brutto libro è ancora in tutte le vetrine e tu non mi sembri affatto pentito”.
Non sorrideva più, gli occhi azzurri non erano più profondi, solo freddi e severi come la voce.
Lì per lì si sentì in colpa, poi si scosse, soffocato dalla rabbia.
“Fila via brutto untuoso ladro d’appartamenti! Con che becco entri in casa mia mentre non ci sono, ficchi il naso nelle mie cose e ti permetti di dare giudizi sui miei libri? Fila via! Fila via!”
Si rendeva conto che dalla rabbia stava passando all’isteria mentre il suo interlocutore era calmissimo nella sua poltrona, il gomito destro appoggiato con grazia a un bracciolo, la guancia sulla mano. E lo guardava, serio, una smorfia d’indulgenza appena abbozzata sulle labbra carnose, senza battere le palpebre. Sembrava rattristato.
“So che non intendi veramente le brutte cose che dici, Sebastiano, ma mi dispiace vedere che proprio non vuoi diventare ragionevole. Io volevo solo darti una mano, darti la possibilità di toglierti da quest’impiccio di modo che i ragazzi del Gruppo potessero smettere con i loro scherzetti, però tu sei proprio testone. Non so più che cosa dirti”.
Incrociò le braccia con aria definitiva.
“Ma che cosa mi ha detto finora?” Sebastiano tornò al lei per non instaurare una familiarità che potesse diminuire la sua ostilità. “Non ho sentito una sola parola sensata, un motivo per cui dovrei pentirmi né di che cosa dovrei pentirmi né un qualsiasi argomento che meriti questo nome, solo parole vuote, minacce velate, stupide ciance... Che cosa vuole da me, insomma?”
Il sedicente Gabriele agitò di nuovo i riccioli lucenti sorridendo amichevole.
“Voglio che tu faccia ritirare quel cumulo di blasfemie che hai scritto, che tu prometta che non scriverai mai più cose simili, che tu faccia pubblica ammenda su tutti i giornali e alla televisione, ammettendo che le cose che hai scritto sono solo indecenti e stupide bugie, che ti vergogni di essere arrivato a un tale livello di indegnità”.
Sebastiano rimase a bocca aperta. Il giovanotto sembrava essere ancora cresciuto di statura e dimensioni, i suoi occhi sfavillavano, sul viso aveva un’espressione dura che trasformava in una maschera immobile i suoi tratti fin troppo belli. 
“Lei è completamente matto. La prego di andarsene subito, o dovrò veramente chiamare la polizia. A proposito, come ha fatto a entrare senza forzare la serratura?”
“Esattamente come farò a uscire” rispose l’altro.
Spiegato un paio di ali immense e scintillanti si avvicinò alla finestra che si spalancò e volò via nella notte con un fruscio.

Sebastiano andò a dormire immediatamente con un sonnifero. La mattina dopo fu svegliato verso le sette da una telefonata dei carabinieri.
“Abbiamo preso due ragazzi che stavano per dare fuoco alla libreria Vettori nel Corso.” Le parole lo raggiungevano appena attraverso la nebbia del dormiveglia. “Avevano versato una tanica di benzina sulla porta e sulle vetrine e stavano per accenderla. Le spiace venire al commissariato?”   
Si lavò e si vestì in stato di semincoscienza. Arrivò al commissariato trafelato, senza cravatta, non c’era tempo per la cura che dedicava solitamente alla sua immagine. Si trovò di fronte due giovanissimi studenti che avevano tagliato la scuola per combinare un guaio più grosso di quello che potevano immaginare, e cercavano di nascondere la paura mostrandosi sprezzanti.
Il maresciallo che li aveva interrogati, irritato, lo accolse con un grugnito.
“Mai visto simili teste quadre. Dicono che volevano fare uno scherzo, che non sanno niente né di lei né del suo libro, che non sanno perché l’hanno fatto. E poi sono minorenni, non possiamo trattenerli”.
“Allora perché mi ha fatto venire fin qui di corsa?” 
Anche Sebastiano era irritato.
“Volevo sapere se per caso li conosceva”.
Non li aveva mai visti.

A casa, sedette al computer infuriato. Compose un veemente articolo contro l’intolleranza e l’integralismo religioso, rivendicando il suo diritto a scrivere quello che voleva finché le sue parole non nuocevano a nessuno e rispecchiavano il suo pensiero. Invitò i lettori e i suoi misteriosi nemici a entrare con un po’ di elasticità mentale nella metafora letteraria. Ribadì la ferma volontà di non ritirare affatto il romanzo, confermando la sua totale adesione al contenuto e alla forma di quello che aveva scritto. Portò immediatamente l’articolo al ‘Giornale d’informazione’, che lo pubblicò il giorno successivo con la dicitura ‘riceviamo e volentieri pubblichiamo’. Solo allora si ricordò di non avere consultato l’editore.   
Intanto cominciarono a arrivare segnalazioni di incendi in varie librerie, ma gli autori si erano fatti più abili, non si facevano più pescare. La casa editrice era in stato di allerta, Mostaccio aveva preso delle misure eccezionali per la sorveglianza degli uffici. La tipografia minacciava di rompere il contratto, i carabinieri facevano capire che ne avevano abbastanza di registrare denunce contro ignoti, non vedendo il motivo per cui fosse così importante continuare a esporre un libro che causava tanti guai. Sebastiano non aveva raccontato a nessuno della visita del giovanotto robusto. Stupito di non essere più stato preso di mira direttamente, si aspettava qualche brutto scherzo da un momento all’altro. 

Ormai l’estate era arrivata, la piazza sotto casa era densa di ombre frondose, oltre che di gas di
scarico e suoni di clacson e frenate. C’erano un paio di panchine e una fontana nell’aiuola centrale, la sera gruppi di ragazzini con rumorosi motorini e puzzolenti motociclette si riunivano a ciarlare e mangiare gelati. Sebastiano li osservava dal balcone del salotto chiedendosi se tra quelle faccette brufolose si nascondesse qualche militante del ‘Gruppo d’azione’. Cercava di decifrare i loro discorsi che talvolta, in un momento di requie del traffico, gli arrivavano sotto forma di numerosi ‘minchia’ e ‘cazzo’ inframmezzati da richiami di ‘Eli! Ale! Vale! Sami! Simo!’. Si chiedeva, con blando interesse, se fossero in grado di pronunciare frasi intere. Certo, se tra loro c’era qualcuno dei vendicatori della moralità, non aveva letto il suo libro, che conteneva subordinate, congiuntivi e numerosi pronomi. A una certa ora sciamavano via con gran sgommate e saluti, le ragazze aggrappate alla schiena dei loro maschietti, le capigliature selvatiche, che avevano agitato con gran perizia fino a quel momento, chiuse nei caschi regolamentari. Dove andavano? Sebastiano, che aveva avuto un’adolescenza tranquilla in una cittadina di provincia e genitori severi, non riusciva a immaginarlo. Anche i suoi figli, tra qualche anno, sarebbero diventati così, capaci di esprimersi solo con urla e abbreviazioni, incomprensibili, stranieri, marziani nella loro vita di gruppo nomade e chiassosa? In quei momenti gli veniva una gran nostalgia e si precipitava a telefonare, immediatamente tranquillizzato dalla notizia che erano impegnati in una ricerca di scienze o a guardare una videocassetta dei Pokemon. Non parlava mai con Elena di un suo eventuale ritorno a casa e nemmeno facevano progetti per le vacanze imminenti. Aveva cominciato a lavorare a un nuovo romanzo, una storia di passione e di mare, che Mostaccio guardava crescere con avido interessamento. Ormai il nome di Sebastiano Orlandi era famoso anche tra chi non leggeva mai un libro, era facile prevedere che il suo prossimo romanzo sarebbe stato un successo di vendite, anche se fosse stato un insuccesso letterario.

Una mattina, mentre entrava in cucina per farsi un caffè, ancora in pigiama e di malumore per un brutto sogno, Sebastiano vide il biondo Gabriele seduto davanti al giornale che il portinaio gli lasciava sullo stuoino, intento a leggere un articolo in prima pagina. Quella vista, più che spaventarlo, lo irritò moltissimo perché odiava leggere un giornale spiegazzato e ci teneva a essere il primo a maneggiarlo.
“Che cazzo fai di nuovo qui!” esclamò, passando senza accorgersene al tu che aveva evitato con tanta cura nel primo incontro. “Sei veramente insopportabile. Questa è casa mia, Cristo, non tollero che tu la usi come sala di lettura”.
Il giovanotto alzò lo sguardo dal giornale. Gli lanciò un’occhiata freddissima. 
“Ti prego di evitare le parolacce e soprattutto le bestemmie” disse severo. “Non posso assolutamente accettarle, nemmeno nella tua casa e nella tua cucina. Se non sei in grado di parlare come una persona educata, stai zitto”.    
Sebastiano tacque, sbalordito da tanta arroganza.
Gabriele si alzò e lo guardò dall’alto. Si teneva ben eretto, le spalle e il petto largo coperti da una camicia a righine bianche e azzurre dalle maniche rimboccate, i jeans scuri tesi sulla muscolatura delle cosce. Sebastiano rifletté che se era davvero un angelo, il suo sesso era però evidente.
“Ancora pensieri sconvenienti.” Non sembrava seccato, sorrideva. “Su, vai a lavarti e vestirti, dobbiamo uscire subito”.
“Non ho nessuna intenzione di uscire. Rendimi il mio giornale e vattene dalla porta o dalla finestra, come preferisci, ma vattene in fretta. Ho un sacco da lavorare”.
Aveva rinunciato al tono indignato e si vergognò un poco perché le sue parole suonavano quasi imploranti.
“Sì, ho dato un’occhiata al tuo lavoro. Molto meglio dell’altro romanzo, ma il tuo articolo sul ‘Giornale d’informazione’ non mi è piaciuto affatto”.
Intanto lo spingeva fuori dalla cucina, dentro il bagno. Mentre Sebastiano faceva una doccia e si vestiva, gli preparò un caffè e glielo portò in camera.
“Muoviti, non abbiamo tanto tempo”.
Sebastiano rifletté un attimo se tirargli il caffè in faccia, poi finì per berlo e ringraziò anche.
Il giovanotto aveva spalancato la portafinestra della camera da letto, la riempiva tutta con la sua mole. Si sentivano i rumori della piazza intasata dal traffico della prima mattina. Gabriele osservava con interesse qualche cosa giù in strada. Gli fece cenno di sbrigarsi. Sebastiano si avvicinò per vedere che cosa stesse succedendo, e di colpo si sentì avvolgere in un abbraccio stretto come una prigione e altrettanto sicuro. In un attimo si ritrovò in alto, sopra la piazza e i tigli, sopra il fiume di macchine che scorreva lento nelle strade, sopra i tetti irti di antenne televisive.
“Ecco,” la voce di Gabriele gli risuonò forte all’orecchio “guarda che cosa hanno combinato quegli sciagurati del ‘Gruppo d’azione’ per colpa tua!”

Si sentì un gran boato e una colonna di fumo e fiamme si alzò dal palazzo in cui abitava. Intorno a loro schizzavano a forte velocità tegole, pezzi di cornicione, vetri rotti e sedie, una scarpa, libri squinternati e bruciacchiati, tazze e cucchiaini sporchi di caffè. L’angelo si scostò un poco. Rimasero fermi nell’aria appena agitata dalle grandi ali iridescenti a osservare tutti quegli oggetti eterogenei che, terminata la loro traiettoria, ricadevano verso terra, andando a finire nel rogo del palazzo o sui tigli, sui tetti delle macchine, sui balconi delle case circostanti. Si sentivano urla e sirene che lì, nell’aria tranquilla offuscata dal fumo che si espandeva, giungevano smorzate, quasi irreali. Nelle strade che sboccavano nella piazza si era creato un ingorgo enorme, le macchine della polizia e camion dei pompieri si facevano strada faticosamente zigzagando sui marciapiedi.
Sebastiano si lasciò scappare un paio di bestemmie che l’angelo commentò solo aumentando la stretta fin quasi a soffocarlo.
“Zitto, ricordati che mi basta allargare le braccia perché tu torni direttamente in mezzo a quell’inferno causato solo dalla tua ottusa mancanza di fede e buon senso”.
Soffocato dalla rabbia e dall’orrore, Sebastiano cercò di colpire gli stinchi polposi dell’angelo con un calcio, ma riuscì solo a oscillare pericolosamente e sentirsi ridicolo.
“La mia mancanza di buon senso? Ma sono quei criminali dei tuoi amici che hanno combinato questo disastro! Ti rendo conto di quanta gente c’era nel palazzo a quest’ora del mattino? E poi parlate di Dio e di fede e...”
Gli si spense la voce in un singhiozzo, perché non solo lui avrebbe potuto trovarsi nel rogo, ma anche Elena e i bambini. Gli apparvero davanti agli occhi come in fotogrammi spezzati le facce degli abitanti del palazzo, amici e facce appena note, e si chiese quante di quelle facce fossero ormai maschere bruciaticce.
Gabriele aveva ripreso a battere con calma le ali. Si allontanarono dal luogo dello scoppio.
“Te l’ho detto che sono ragazzi, ogni tanto ci combinano dei guai. Ma le intenzioni sono buone. Comunque io non ho mai parlato di ... , ti prego di non nominarlo invano”.
La città si agitava, macchine e autobus si muovevano lenti o veloci a seconda delle strade, i passanti non si distinguevano quasi, ogni tanto si vedeva qualche isoletta verde in mezzo alle costruzioni. Sebastiano trasalì nel riconoscere il quartiere in cui abitava sua suocera, poi la strada, e il palazzo.
“Fammi scendere qui ! Per piacere, voglio vedere i miei bambini!”
“No, mi spiace, la nostra meta è un’altra” rispose Gabriele in tono gaio, e accelerò il volo.
Sotto di loro si stendeva il fiume, verde e diritto come un viale, tra le sponde coperte d’alberi e un gran svolazzare di gabbiani. L’angelo si abbassò sulle acque fin quasi a sfiorarle, e le anatre che nuotavano vicino alle rive si levarono a volo spaventate. Due cigni continuarono a nuotare con dignità, ma per prudenza si diressero verso la parte opposta.
“Ti piace il fiume?” disse Gabriele dirigendosi di nuovo verso l’alto. “Ho avuto l’incarico di portarti qua. Meglio l’acqua che il fuoco, non trovi? Pensare che se ti fossi pentito, se avessi dato retta ai buoni consigli... Non si può dire che tu non sia stato avvertito, Sebastiano, ma sei proprio una testa dura”.
Un ago di panico gli trafisse la schiena.
“Che cosa vuoi dire?”
Provò a guardare in faccia l’angelo, ma il sole abbagliante lo costrinse a girarsi di nuovo verso il basso. Il fiume scintillava calmo sotto il sole, il fumo non era arrivato fin lì.
“Sebastiano, Sebastiano... tu ci hai creato un sacco di problemi, ma ti assicuro che non lo faccio volentieri”.
Allargò le braccia. Sebastiano precipitò giù, talmente sorpreso che dalla bocca spalancata non gli uscì neanche un grido.
            
            L’acqua del fiume era fredda malgrado la stagione, la superficie sembrava dura come un pavimento di cemento, ma si ricompose subito e sulla corrente lenta si sparsero dei cerchi concentrici come su uno stagno. Per un attimo le acque in quel punto furono oscurate da un’ombra che spandeva riflessi iridescenti, poi il sole tornò a farle scintillare.

2 commenti:

Massimo Citi ha detto...

Un racconto tenuemente agghiacciante. Diciamo che hai evocato il clima del momento con indubbia e indiscutibile bravura. Penso che questa notte me lo sognerò l'angelo Gabriele che, ridendo, apre le braccia e lascia cadere, più o meno come sognare un'esecuzione dell'IS o qualsiasi altra struttura del genere. Hai per caso avuto una buona educazione cattolica?

consolata ha detto...

Ho avuto un'educazione cattolica più o meno come tutti, sempre scuole pubbliche, nessuna frequentazione di suore o preti tranne l'oratorio di Venaria da bambina (mia madre ci teneva che sapessi stare con tutti). No, quello che penso di angeli santi & affini è proprio farina del mio sacco, distillato del mio cervello. Sai com'è, vivendo si impara.