sabato 25 aprile 2015

Perché in Cappadocia sono tutti filosofi: Il regno d'inverno di Nuri Bilge Ceylan

Io scemenze ne faccio tante, senza sforzarmi troppo, e sovente. Sono piena di pregiudizi e così quando è uscito in sala Il regno d'inverno di Nuri Bilge Ceylan ho messo insieme film d'autore turco, Palma d'Oro a Cannes, durata spropositata (196 minuti), colti riferimenti a Cekov, Shakespeare ecc e ho detto no grazie. Malgrado il mio amore per l'Anatolia, la steppa e la Cappadocia in cui si svolge la vicenda di Aydin (Haluk Bilginer), maturo possidente e intellettuale di provincia, laico e progressista, che vive nel suo albergo rupestre insieme alla sorella Necla (Demet Akbag) e alla giovane moglie Nihal (Melisa Sözen).
Be', mi sono completamente sbagliata ancora una volta. 


Il regno d'inverno è un film meraviglioso, che acchiappa e affascina e non stanca mai, anche se non succede quasi niente di concreto (e quel poco che succede non ve lo dico).

È autunno, l'inverno si avvicina, i personaggi sembrano caduti in una specie di bolla temporale che desta insieme nostalgia e repulsione, in cui i conflitti sono primordiali, il bene contro il male, i ricchi contro i poveri, l'amore contro il disprezzo, l'illusione contro la realtà. E l'esterno contro l'interno: fuori la natura struggente della Cappadocia con i suoi abitati onirici scavati nella roccia, profondi e imperscrutabili come l'inconscio, la steppa e l'acqua che scorre scavando la pianura, le montagne lontanissime a chiudere l'orizzonte, le nubi e la neve, i cavalli selvatici, i lupi, le lepri, le volpi, la caccia e le armi, rituale maschile che esclude le donne, che non appaiono mai all'esterno; dentro gli interni stupendi, poverissimi o connotati da segnali di lusso che non ne intaccano la sostanziale austerità, illuminati dalle fiamme vacillanti del camino o dalla luce fredda che entra dalle finestre senza tende.

Anche i personaggi, sia principali che secondari, sono meravigliosi. Aydin è ricco, e dilettante: ha fatto l'attore in gioventù ma non ha mai sfondato, scrive per un giornaletto locale, conversa con gli ospiti stranieri dell'albergo, è distrattamente generoso e delega al suo factotum Ilyas tutte le incombenze sgradevoli, vive con due donne ma non ne capisce fino in fondo i desideri. Non guida neppure il suo Suv, è sempre accompagnato da Ilyas, va a caccia ma la sua vita è all'interno, nel cerchio caldo di luce soffusa, dove si rifugia dietro lo schermo del suo Mac, viaggiando solo in internet, mentre sullo sfondo rimane l'illusione lontana della fama, della libertà, di Istanbul dove tutto potrebbe ancora cambiare, il rimpianto del passato quando tutto doveva ancora avvenire, le aspirazioni che non si realizzeranno mai. Necla e soprattutto Nihal sono problematiche, hanno desideri e pensieri complessi. Necla si chiede se si può vincere il male assecondandolo, con la forza dell'esempio fino a farlo vergognare di se stesso; Nihal è l'unica che alla parola cerca di sostituire l'azione, e il fatto che sia pesantemente sconfitta fa pensare che il significato di Il regno d'inverno vada ben al di là delle vicende personali per abbracciare un giudizio sulla Turchia intera.

                
Gli altri sono uomini soli e lamentosi o rassegnati (l'amico vedovo, il maestro di scuola), un imam untuoso e il suo fratello violento, un bambino torvo, donne e serve silenziose che appaiono per portare il tè e immediatamente spariscono.
Intanto tutti parlano per tutto il tempo, ma non si riesce a staccarsi da questi discorsi astratti da intellettuali di provincia, da sere vuote, da troppo alcol o troppi silenzi o troppi rancori coltivati nella noia e nella frustrazione. E troppo freddo, dentro e fuori. In certi  momenti sembra di trovarsi in Scene da un matrimonio di Bergman, in altri pare di vedere come è nata la filosofia, così nel buio e nell'inverno, nella noia delle notti troppo lunghe, nella solitudine e nelle distanze eccessive, propizie alle discussioni sull'etica.

Poi c'è il denaro: il percorso tortuoso di una busta piena di soldi che passa di mano in mano mette in luce la volontà di controllo, il senso di colpa e l'impotenza, il disprezzo e la rabbia che ognuno coltiva dentro di sé.  
Ma i personaggi evolvono, e persino l'untuoso e vigliacco imam alla fine ci appare quasi eroico nel suo sforzo quotidiano di  lottare contro la miseria e tenere insieme una famiglia disastrata. E l'ultima scena, con l'accorata confessione di Aydin che si trasforma in articolo battuto sulla tastiera del solito Mac, l'ultima inquadratura sulla sua faccia che rivela tutto il personaggio, valgono da sole la visione del film. E la Palma d'Oro. E l'ammirazione per il regista.

Gli interpreti sono tutti perfetti. 

Il regno d'inverno non è un film deprimente, tutt'altro. È un film che rappresenta la vita, i suoi ritmi, alieno da qualsiasi moda, non usa l'arcaizzazione per acchiappare la simpatia o lo snobismo etnico dello spettatore. È un film intenso che in qualche modo tocca nel profondo, che non annoia nemmeno per un attimo perché ha la forza della sincerità.

E la Cappadocia è meravigliosa. Anche d'inverno, vi assicuro, quando sulla neve ci sono solo le tracce delle volpi e alle cinque fa già buio, anche se per riscaldamento c'è solo una stufa in sala da pranzo. Io però non sono diventata filosofa, nemmeno lì. Forse non ci sono proprio portata.  

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