martedì 30 luglio 2013

Mary Gaitskill, Oggi sono tua. Quella della segretaria che si faceva sculacciare.



Trasgressiva? Ma va’ là. Mary Gaitskill, Oggi sono tua.

Non ricordo più il motivo per cui ho comprato questa raccolta di racconti di Mary Gaitskill. Sicuramente ho letto da qualche parte una notizia sull’autrice che mi ha incuriosito, ma il perché mi sfugge. Americana, nata nel 1954, si fece una fama di scrittrice trasgressiva nel 1988 con la raccolta di racconti Bad behavior; le diede ulteriore notorietà il fatto che da un suo racconto, Secretary, fosse tratto il film omonimo (che però ha pochissimo in comune con il racconto). Probabile che abbia pensato che un po’ di sano erotismo spinto, di sporcaccionerie, mi avrebbe messo di buonumore. Non è stato così. La leggerezza, l’ironia e il gusto del piacere non fanno parte del repertorio di Mary Gaitskill. Questa sorella intelligente e non particolarmente simpatica delle quattro decerebrate di Sex and the city (che infatti è citato come termine di paragone per la modernizzazione dei costumi sessuali) di primo acchito mi ha fatto venire un attacco di orticaria da insofferenza per la sua spocchia newyorchese, la convinzione che quello che va di moda a New York nelle ultime ventiquattrore è il top dello chic e dell’intellettualmente sofisticato. Poi a poco a poco ci si lascia andare. Tutte le storie raccontano la stessa storia e alla fine è difficile distinguere un racconto dall’altro. Tutti rigorosamente destrutturati, tagliati facendo bene attenzione a non concludere nessuna vicenda, non sia mai che risultino un po’ tradizionali. 

Comunque non sono le vicende che contano ma la pancia, le viscere e la mostruosa abilità tecnica di scrittura. Le trame sono un intreccio continuo di fatti esterni e riflessioni del personaggio principale, ricordi, immagini frammentarie, sensazioni e piccole osservazioni di ciò che lo circonda. È una prosa artificiosa al massimo grado ma scritta benissimo, che talvolta pecca un po’ di barocchismo ma per lo più l’autrice riesce a controllarla. È un eccezionale manuale di scrittura a patto di maneggiarlo con precauzione. Si parla di genitori (moltissimo), morte (parecchio), figli, sorelle, fratelli, sesso. Ma non c’è niente di trasgressivo, anzi. Si può ridurre quasi tutto a uno schema: una donna in una situazione critica (sovente malattia o morte, a volte viaggio) ripensa a una persona del suo passato. Il rapporto con i genitori è sempre importante, come se in mancanza di radici (i personaggi sono sempre in movimento, mai originari del posto in cui vivono, si vedono molto raramente con i parenti), ci si aggrappasse all’ambito familiare ristretto per consolidare la propria identità. Molte protagoniste hanno storie lesbiche ma sono ovviamente sempre bisex, e non disdegnano le pratiche masochiste – vi pare? Bisogna pur stare al passo con i tempi. 

Malgrado spazino da New York a Addis Abeba, le vicende danno un senso di claustrofobia. Nessuno dei personaggi alza mai gli occhi dal proprio ombelico o da quello dei propri familiari e prossimi, la curiosità è sconosciuta tra i very cool di successo (altro argomento molto rilevante) o almeno intellettuali alternativi. Esemplare Non piangere, in cui due americane volano in Etiopia per adottare un bambino senza passare per un’agenzia, si trovano in mezzo a un colpo di stato, manco sanno dove sono né che cosa sta succedendo, l’una ossessionata dall’idea di avere un bambino cui pensa bene di strappare radici e identità cambiandogli subito il nome, l’altra persa nel dolore per la sua recente vedovanza. Traduzione efficace di Susanna Basso e Maurizia Balmelli, a seconda dei racconti.
Da leggere assolutamente se vi piacciono gli scrittori americani e pensate che siano l’unica possibile letteratura di oggi, o almeno il meglio. La raccolta è ampia, e dopo un po’ la voce di Mary Gaitskill ha un dolce effetto rassicurante e un po’ soporifero. Che non è quello che lei si proponeva, immagino.          

venerdì 26 luglio 2013

Un posto carico




Quando dico un posto carico, voglio proprio dire uno di quei posti dove si sente che c'è stata la vita, che sono stati pieni di grida e rumori, di gente affaticata, sudore e muscoli, adrenalina, fretta, stridori e caldo. Adesso c'è vento, e silenzio. Il mare fa rotolare la ghiaia, le onde si frangono piano, non c'è nessuno che parla forte o corre. E' un posto molto, molto solitario. E' una miniera di zolfo abbandonata.




E' a Milos, proprio quella della Venere, si chiama Theorichia e sta in una zona detta Paliorema. Milos è piena di miniere, a cielo aperto o in galleria, e di impianti industriali, di scivoli per imbarcare i minerali, di zone dove non si può circolare o lo si fa a proprio rischio e pericolo. E' un'isola muscolare, virile, sovente selvaggia. Per scendere a Theorichia si deve percorrere una strada che si inoltra in una valle che sembra la bocca dell'inferno. L'odore di zolfo, bisogna dire, aiuta l'immaginazione.  
Milos è bellissima. E' piena di grotte sia in terra che in mare. Per nuotare è fantastica. E' spazzata dal vento, ma ci sono parecchi nascondigli e ripari per chi non vuole essere visto. Milos era un'isola di pirati. In un posto chiamato Sarakiniko hanno scavato magazzini nella roccia per nascondere il bottino. In un altro posto i primi cristiani hanno scavato lunghe catacombe.   










 Si fanno molti chilometri di strada sterrata, poi si può lasciare la macchina in un grande spiazzo disseminato di cristalli di zolfo. Si scende a piedi, anche se ogni tanto qualche 4x4 o qualche moto si spinge sino alla spiaggia. Secondo me se ne pente quando ormai è troppo tardi per fare dietro front.










In fondo c'è il mare, sulla sinistra gli impianti di estrazione e trasporto dello zolfo, sulla destra i locali dove veniva preparato al trasporto e gli alloggiamenti degli operai. A Adamas, il porto centrale di Milos, c'è un bel museo minerario dove si possono vedere dei video con interviste a vecchi minatori che raccontano le condizioni di vita nelle miniere negli anni dopo la seconda guerra mondiale. Molte erano le donne che ci lavoravano. Avete letto, per caso, Germinal di Zola? Be', è una buona occasione per farlo. Magnifico romanzo, e impressionante. I video del museo di Milos fanno piangere.


La miniera di Theorichia è stata chiusa negli anni cinquanta, ma non ha età. Potrebbe essere un sito archeologico allo stesso modo di Epidauro, Micene o Delos.
L'acqua è pulitissima e trasparente, ma sul fondo ha una patina gialla. Zolfo. Ha odore di zolfo, e il colore dello zolfo.   




Macchinari abbandonati arruginiscono sulle pietre.
C'è un'unica tamerice sotto la quale stare, e nel raro caso che ci siano più gruppi di bagnanti, per avere un po' d'ombra rimangono solo le basse arcate di un ponte che sembra del tutto pleonastico. Ma forse esistono stagioni anche a Theorichia, primavere piovose in cui i torrenti si buttano a rotta di collo giù per la valle infernale. Forse. 





Fin dalla prima volta che ci sono venuta, anni fa, volevo scrivere una storia che si svolgesse qui, ma non ci sono ancora riuscita.














 


Eppure le tracce di chi ha vissuto e lavorato qui sono tante. Negli edifici dal tetto sfondato ci sono ancora le reti metalliche, gli armadietti e i lavandini.    








Ma un giorno a l'altro, sono sicura, quella storia nascerà e io la stamperò e ne porterò una copia alla minera, per nasconderla in un armadietto o in un cunicolo dalla bocca spalancata verso il mare.










Penso che se ci fosse una frana e il vallone rosso e nero con le sue grotte si ostruisse e io fossi costretta a rimanere lì, dopo il tramonto i fantasmi uscirebbero a centinaia dalle gallerie e comincerebbero a lavare in mare lo zolfo, a farne mucchietti ordinati sulla riva e dargli fuoco per ingannare i traghetti superfast e gli yacht degli sceicchi e farli naufragare sulle rocce dalle forme umane e raccattare i cadaveri sulla battigia per portarli con sé all'alba nelle gallerie, per farsi compagnia, e li sentirei giocare a tric trac sbattendo le pedine sul tavoliere e li sentirei ridere e bisticciare forte, e sentirei l'odore dello zolfo come di una fioritura estiva che solo di notte si spande nell'aria di mare, e un attimo prima che sorga il sole il vento spazza via tutto.



domenica 14 luglio 2013

Orhan Pamuk, Il signor Cevdet e i suoi figli: i Buddenbrook a Istanbul, con riserve


Quandoque bonus dormitat Homerus.

Se Il signor Cevdet e i suoi figli fosse il primo libro di Orhan Pamuk che leggo, certamente non correrei a leggerne un altro. Devo confessare che ho fatto parecchia fatica a arrivare alla fine, non sempre ho seguito con attenzione gli interminabili monologhi interiori e le fluviali conversazioni che costituiscono la sostanza del romanzo. Giovanile e ambizioso tentativo di affresco della Turchia dall'inizio del '900 al 1970, mette già in scena tutte le ossessioni dell'autore: il contrasto tra oriente e occidente, tradizione e modernità, libertà e oppressione, luce della ragione e oscurità della superstizione. Scritto tra il 1974 e il 1978, pubblicato nel 1982 (Pamuk è nato nel 1952) con notevole successo, ambientato tra Istanbul, Ankara e nelle campagne dell'Anatolia interna, è anche eccessivamente didascalico, vuole mettere in scena tutte le tendenze, tutti i movimenti e i modi di pensare che hanno percorso la Turchia nell'ultimo secolo. In questo senso non me la sento di esprimere un giudizio, molte cose neppure le ho capite, ma sicuramente per un turco hanno un senso e un interesse.

Quello che non funziona, secondo me, è che non succede mai niente, assistiamo a sfinenti conversazioni, sorbiamo eterni monologhi interiori che dovrebbero farci capire le trasformazioni dei personaggi ma in realtà annoiano. Venendo al dunque: il signor Cevdet, all'inizio del '900 è una rara avis in quanto commerciante musulmano a Istanbul, quando il commercio era in mano a greci, ebrei, armeni e levantini; lavora, è una brava persona, sposa la figlia di un pascià. Compra una casa a Nisantasi. Ha un fratello tisico che muore (fuori scena) e gli lascia un figlio in eredità (che sparisce, ricompare di tanto in tanto, sembra importante ma poi non lo è). Fine anni '30: Cevdet è malato, ha due figli maschi e una femmina, c'è la Repubblica, tutto è cambiato ma tutto è uguale. Di qui in poi la storia in sostanza gira attorno a tre ingegneri: Refik, figlio mediano, e i suoi amici Omer e Muhittin: l'idealista, l'ambizioso e il poeta. Anche loro non fanno granché ma parlano, parlano, parlano, e gli argomenti sono le riforme, il nazionalismo, i contadini, i politici. L'alcol, che ha una grandissima importanza. Tutti e tre si trasformano tradendo i propri progetti e i propri ideali. 1970: Ahmet, figlio di Refik, fa il pittore e dell'azienda di famiglia (gestita da zii cugini ecc) se ne impippa. Parla d'arte e anche un filino della rivoluzione. L'esercito prepara un colpo di stato di sinistra.

Questa maniera ellittica di raccontare, in un romanzo d'impianto e ambizioni tradizionali, secondo me non funziona. Crea aspettative su personaggi che poi abbandona e di cui veniamo a sapere retrospettivamente scelte inaspettate, molla tutto quando comincia a nascere un barlume di interesse, di altri si dimentica completamente. Certo non fa venire i nervi come Il libro nero o La nuova vita, ma è noioso e manca assolutamente della bella scrittura che rende preziosa la prosa di Orhan Pamuk. Ricorda, come temi e attaccamento al realismo e alla politica, La casa del silenzio (che infatti è del 1983), ma è troppo lungo, verboso, ripetitivo, particolareggiato. Le domande di base che tutti i personaggi parlanti si pongono sono: chi sono io? Qual è il senso della vita? e questo già ci fa capire che si tratta di un'opera che pecca insieme di un eccesso di ambizione e di ingenuità, caratteristiche che infatti che l'autore attribuisce ai suoi personaggi. E quando parlo di personaggi intendo quelli maschili, che pur schematici e eccessivamente dediti all'autoanalisi, sono approfonditi, mentre le donne sono sagome opache, non si riesce a vedere attraverso, e sovente non parlano.

Man mano che leggevo continuavano a venirmi in mente I Buddenbrook, e quando sono arrivata alla postfazione dell'autore ho avuto la conferma che era uno dei suoi modelli (insieme a Anna Karenina, ma di questo, confesso, non me n'ero assolutamente accorta). Si può leggere anche come una metafora della Turchia che, liberandosi dell'arretratezza ottomana, abbraccia la modernità (il commercio di Cevdet, le riforme di Rafik, la ferrovia di Omer, l'estremismo di Muhittin), ma sostanzialmente fallisce. Per fortuna Orhan Pamuk forse non ha una gran testa di filosofo ma è un magico narratore e ha abbandonato l'esemplificazione delle idee per la narrazione e le atmosfere, e soprattutto ha dato voce alla struggente nostalgia che pervade le sue opere migliori, da Neve a Istanbul a Il museo dell'innocenza.

Traduzione non indimenticabile di Barbara La Rosa Salim (per esempio dove ha mai trovato "le strilla" che compaiono più di una volta?). Penso che la meravigliosa fotografia in copertina sia di Ara Güler, come quelle che abbelliscono e completano le pagine di Istanbul, ma non ne sono sicura dato che l'ho letto in ebook e non riesco a trovare conferma in rete.
E adesso, dopo ben otto giorni dedicati a Il signor Cevdet e i suoi figli, per una volta mi congedo volentieri da Orhan Pamuk e magari mi tuffo in Petros Markaris o Ersi Sotiropoulos dato che sono nella loro bella patria. Qualsiasi cosa purché sia veloce e leggera.

lunedì 1 luglio 2013

CINQUE PEZZI MOLTO FACILI



Al tavolino del bar accanto a quello di Maria c'era una famiglia di stranieri, un classico quartetto di padre madre figlia figlio, che bevevano spremute con la cannuccia da bicchieri svasati, emettendo rumoretti indiscreti. Il vento di mare faceva ondeggiare i capelli biondi e fini attorno alle facce scottate, un po' spaesate, attonite. Parlavano poco e questo era irritante perché non riuscì a individuare di che nazionalità fossero. Il traffico impediva di vedere le barche ormeggiate alla banchina, solo gli alberi oscillanti lasciavano capire che al di là della puzza e del rumore si stendevano la calma e il silenzio dell'acqua a mezzogiorno.
Maria spense la sigaretta nell'avanzo di gelato, deliberatamente, per fare qualcosa di disgustoso. Accettò soddisfatta le occhiate di riprovazione della famigliola.

Vietato raccogliere fiori
Camminano uno di fianco all'altra davanti a me sul vialetto inghiaiato, lui con passo trattenuto lei senza cambiamenti di ritmo, oscillando le braccia. La schiena di lui, sotto la camicia a righe verdi e rosa, ha la sciolta energia della giovinezza, lei è appena un po' rigida.
Lui osserva le piante e parla a voce bassa. Le parole non mi arrivano. Vedo il profilo esatto, il naso breve, le labbra carnose, il sorriso solitario quando si volge verso di lei. Ha il collo abbronzato e i capelli neri, ricci sulla nuca. Lei interloquisce brevemente, senza girarsi. I capelli sono biondi con qualche filo grigio, raccolti a coda di cavallo. Porta camicia e pantaloni di uguale candore.
A ogni cespuglio fiorito si fermano. Lui parla, lei annuisce, seguendo la pressione della mano di lui sulla spalla si china e annusa i fiori.
Davanti a una camelia bianca si trattengono più a lungo. Io rallento il passo, perdo tempo con l'aiuola di giacinti. Lui si guarda intorno, si volta verso di me, mi lancia un sorriso di scusa poi allunga un braccio al di là della bassa recinzione, raccoglie un fiore, lo dà alla donna. Lei lo tocca, lo porta al viso, si mette un petalo tra le labbra. Vedo le guance pallide sotto gli occhiali neri, il mento forte, l'attaccatura alta dei capelli.
Mentre li sorpasso lui mi sorride di nuovo poi riprende a parlare fitto. Lei non gli risponde perché ha la bocca piena di petali.

Se faccio uno sforzo di volontà forse riesco a non sentirli. Non c'entrano con blu vento rocce scia schiocchi. Se mi concentro forse riesco a far apparire un branco di delfini o almeno di pesci volanti. Fa un po' freddo qui fuori.
Di nuovo mettiti, non fare, dammi. Lei è grande e grossa, saprà bene dove mettersi e che cosa fare senza bisogno di istruzioni. Invece no: dove? cosa? come? Ma buttalo in acqua. Almeno questo "sì" te lo potevi risparmiare. Però ha delle belle mani. Sarà quello che le fa dire sì e sorridere tanto? Cosa cazzo sorridi. Da quando siamo saliti non è stato zitto un momento e tutti imperativi.
Se mi concentro sono sicura che riuscirò a fare apparire la sirena sorella di Alessandro Magno che lo cerca ancora. Alessandro vive e regna, sapete dov'è? O le punte del tridente. O i tonni di fine estate come quando ero piccola che li guardavamo con il binocolo dalle finestre della sala da pranzo. Anche la bocca però non è male. E di sicuro lei non ha mai il tempo di sentirsi sola.

"Dove vai?" mormorò Mario, sonnacchioso e gattone dopo l'amore. "A farmi un caffè". "Proprio adesso?". Anna non rispose. Era andata come sempre, così così, ma ormai era tardi per affrontare il discorso.
In piedi davanti alla cucina Anna fissava la caffettiera. Sentiva il processo che avveniva all'interno. Al calore della fiamma l'acqua cominciò a bollire e il vapore a premere, a inumidire la polvere di caffè, a gonfiarla, a spingerla verso l'alto in un crescendo di urgenza, pienezza, tensione.
Vide il composto dilatarsi nel filtro, il vapore ricondensato concentrarsi nello spazio ristretto del canalino, premendo, spingendo finché il liquido bollente cominciò a sgorgare libero riempiendo di caldo scuro piacere la concavità accogliente.
Spense il gas. Prima di versarsene una tazza attese che si calmassero il leggero bollore nel caffè e i cerchi concentrici nel suo stagno profondo.

Vorrei saperle chiedere scusa per essermi vergognata di lei. Vorrei farle dimenticare che quando sono uscita dal portone della scuola e l'ho vista lì davanti, con la sua pelliccetta lisa e il sorriso pieno di aspettativa, allegra di avermi fatto un'improvvisata, la mia faccia si è chiusa come una saracinesca e ho fatto finta di niente finché tutti i miei compagni se ne sono andati sui loro motorini. E' troppo vecchia, troppo dimessa, ha sempre il rossetto sbavato, ha la pancia, e poi mi bacia davanti a tutti e le si legge in faccia l'ansia di vedermi contenta e la voglia di entrare nel mio mondo, conoscere i miei compagni, l'edificio dove passo tanto tempo. Per tutta la strada ho fatto il muso, lei mortificata mi lanciava occhiate di sottecchi, mi faceva domande intimidite. Chissà come aveva pregustato la sua sorpresa. Mi vuole così bene. Non mi perdonerò mai di averla delusa. Vorrei trovare le parole giuste per scusarmi. Le voglio bene.
"Mamma". "Sì, tesoro?". "Per favore, non venire più a prendermi a scuola".      

                                                                               


Una vera scemenza



RAPERONZOLO ALLA CORTE DI RE VISSANI

C'era una volta una signora così povera che non aveva mai mangiato astice in vita sua. Perciò, una volta che proprio stava per morire di fame, entrò in una gastronomia e rubò un aspic di astice e cipollotti dolci del Belice in salsa mordoré.
"Ottima scelta!" disse il suo convivente quando rientrò e trovò la tavola lussuosamente apparecchiata. "Che ci beviamo sopra?"
"Aspetta un attimo" rispose lei, scese di corsa alla Boutique del Vino sotto casa e rubò quattro bottiglie di Ferrari brut. Ma questa volta le andò male. Il vinaio l'afferrò per la collottola.
"Cash o carta di credito?"
"Facciamo così" propose la signora "le mando mia figlia, è molto carina e fa ottimi tortini di rape glassate alla crema di acciughe di Favignana e puntine di cerfoglio. Vedrà che successo se le mette a dadini come assaggio nell'angolo degustazione".
Detto fatto, la ragazza fu assunta con regolare contratto, il costo delle bottiglie le venne detratto dallo stipendio in sei mesi, senza Iva né interessi. Sposò il vinaio e insieme misero su un bistrot aperto tutta la notte, che presto divenne la location di un reality gastronomico in cui centotrenta Vip si sfidavano a cuocere i loro piatti sulla fiamma di una candela. E vissero felici e contenti mangiando e bevendo, ma del tortino a me non me ne dettero nemmeno un pezzettino.