giovedì 9 maggio 2013

Le dimenticate -2. Quelle che se lo sono meritato.




Un’altra di quelle antologie da acquolina in bocca, intitolata Tra letti e salotti, che ospita una serie succulenta di autrici italiane tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento di cui, con l’eccezione di Matilde Serao che almeno in Il paese della cuccagna è autrice forte e autorevole, non ho mai letto neppure un titolo (di parecchie non conoscevo neppure il nome), con una prefazione piuttosto fumosa e note biografiche di Gisella Padovani e Rita Verdirame. Racconti di Contessa Lara, Anna Vertua Gentile, Vittoria Aganoor, Matilde Serao, Regina di Luanto, Jolanda, Adelaide Bernardini, Térésah, Amalia Guglielminetti, Carola Prosperi. Temi e situazioni sono piuttosto monotoni, ma naturalmente questo non è imputabile alle autrici: il titolo già ci avverte di che si parla. Duchesse, contesse, principesse o se proprio vogliamo tenerci leggeri baronesse, stanno sempre sull’orlo del peccato di adulterio, e talvolta ci cascano altre (più rare) no. Sono vergini o voluttuose, ma sempre bellissime, statuarie, sovente febbrili, hanno le vesti perennemente in artistico disordine, curano con l’idroterapia la salute indebolita dai disturbi nervosi, talvolta hanno qualche delizioso piccino attaccato alle sottane ma poi arriva subito una nanny a portarlo via. Nei momenti morti se ne stanno anche in salotti sontuosamente addobbati, di sfrenato decadentismo, ma in testa non hanno altro pensiero che quello. Tra fremiti, palpiti e deliqui il rischio più grave, il vero spauracchio, è l’anatema sociale; sembra che gli unici limiti nella loro condizione di donne siano il rischio e la fatica che comporta scopare fuori dal matrimonio. 

Ciò che colpisce davvero, e non favorevolmente, è il linguaggio con cui queste storie sono raccontate, con l’unica eccezione, forse, di Carola Prosperi: un dannunzianesimo insopportabile, estetizzante, di livello bassissimo, innaturale, ridondante, al limite del ridicolo. Un esempio da Il furto della duchessa, di Jolanda: Un tripudio, un’ebbrezza delle forme e dei colori in quel lieve disordine, nell’onda di sole che irrompe gloriosa, ravvivando, raddoppiando la vita, consumandola come una fiamma… Non sto a raccontare dettagliatamente le vicende. Il valore (notevolissimo) di quest’antologia non è tanto nei singoli racconti, né nell’interesse che possono suscitare. Quello che rende la lettura molto soddisfacente è lo sguardo d’insieme su un gruppo di autrici giustamente dimenticate, che hanno avuto al loro tempo un grande successo, hanno pubblicato fiumi di libri, diretto riviste, creato modelli di comportamento per le donne della loro epoca. Più delle loro opere sono degne di nota le biografie, esempi di donne piene di interessi, capaci e attive, intellettuali magari un po’ ingenue e conformiste o invece trasgressive e coraggiose, ma comunque, spiace dirlo, giustamente dimenticate come scrittrici.

Diverso il caso di Kate Chopin (1853-1954), vissuta sempre tra St Louis e New Orleans, vedova prima dei trent’anni con sei figli, che, dimenticata in vita dopo un primo relativo successo con Il risveglio (1899), è stata riscoperta e rilanciata con notevole riscontro quando quel medesimo romanzo è stato letto come un anticipo di femminismo. In Italia l’ha pubblicato Einaudi nel 1989, con traduzione di Erina Siciliani. Confesso che non l’ho letto a suo tempo né questo Un paio di calze di seta, malgrado l’autrice tratti temi anche importanti come la condizione femminile, mi fa venire voglia di leggerlo adesso. Sono tredici brevi racconti che oscillano tra il melodrammatico pretenzioso (La guarigione, La ragione di Mrs Mobry, Le sue lettere, L’imprevisto), il leggero fino all’inconsistenza (Un’anima sentimentale, Due ritratti,Un racconto di Elizabeth Stock, Ma’ame Pélagie, La sigaretta egiziana), tentativi di ritratti emblematici di donne (Più sapiente di Dio, Un paio di calze di seta). Si salvano Una notte in Acadia e In Sabine, dove due sconfitte femminili sono inserite nell’interessante cornice della vita in Louisiana, tra campagna e foresta. Il linguaggio risente del clima del decadentismo, è spesso eccessivamente ricercato, magniloquente, e predilige la paratassi. A tratti la stravagante traduzione di Anna Maria Farabbi, che certo non l’avvantaggia, rende difficile seguire il senso del testo.

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