mercoledì 12 dicembre 2012

UN RACCONTO DI NATALE ALLA MODA DI UNA VOLTA



Il salotto della vecchia casa sembrava veramente l’illustrazione di un libro per bambini: le tende tirate, il camino acceso, le decorazioni natalizie tutte verde, rosso e oro, la tavola preparata e i mucchi di regali distribuiti in giro, ognuno con il nome del destinatario scritto su di un bigliettino; c’erano anche una nonna e dei nipotini, che aspettavano impazienti il momento di aprire i pacchi. La nonna veramente non aveva i capelli candidi, ma bruni e tagliati alla moda; i nipotini erano tutti belli, biondi e con le guance lustre.
– Nonna, raccontaci una storia, – disse il più grande dei bambini, che aveva un mucchio di riccioli e si chiamava Luchino.
La nonna lo guardò perplessa: non aveva mai raccontato storie ai nipoti, e per quel che ricordava, nemmeno ai figli. Ma è difficile sottrarsi all’atmosfera natalizia, per cui rispose:
– Va bene, vi racconterò una storia, così almeno la smetterete di girare intorno ai regali; sapete benissimo che non si possono aprire finché non arrivano i vostri genitori. Che storia volete? Una che sapete già oppure una nuova?
– Una che sappiamo già, – gridarono i più piccoli.
– Una nuova, – disse Luchino.
– Allora ve ne racconterò una nuova, fatta apposta per voi, – disse la nonna. – Sarà molto più divertente.
C’era una volta un papà che lavorava in banca, e una mamma che lavorava in casa, faceva i dolci, le patatine fritte, i letti, e i bambini. E di bambini ne aveva fatti tre: due femmine e un maschio. Le femmine erano bionde, il maschio era bruno. Anche la mamma era bionda, e il papà era bruno. Una mattina, all’ora di andare a scuola, la bambina più grande, che si chiamava Mara, disse ai suoi fratellini:
“Io devo andare in cartoleria a comperare un quaderno; ci vediamo a scuola”.
A scuola Mara non si vide per tutta la mattina, e all’ora di andare a casa i due bambini più piccoli se ne tornarono da soli. La mamma, quando vide che Mara era scomparsa, si preoccupò molto; fece un mucchio di telefonate, uscì a cercarla, andò persino alla polizia; ma i fratellini erano abbastanza contenti, perché Mara era una spiona, le sue pagelle erano sempre molto più belle delle loro, e non si sporcava mai.
Mara non ricomparve più. Qualche giorno dopo, tornando da scuola, i due fratelli incontrarono una bambina che le assomigliava moltissimo. Solo che Mara aveva la frangetta, i capelli lisci, gli occhiali e la macchinetta per i denti; questa bambina invece aveva i capelli sparati, i buchi alle orecchie con due piccoli orecchini di brillanti, un giaccone imbottito rosa fragola tutto coperto di spillette di band mai sentite.
“Sei Mara?” le chiesero i bambini.
“Ma va’ là, scemi, io mi chiamo Myra, con la ipsilon,” rispose lei, “non vedete come sono diversa da Mara, che portava sempre la felpa di Hello Kitty e i fermagli in testa? Io ho le scarpe da trecento euro, e poi voi il sabato pomeriggio andate sempre con il vostro papà in centro a mangiare le paste in pasticceria, io invece vado al bowling, o in discoteca con il mio ragazzo che ha il motorino”.
I due bambini rimasero con la bocca spalancata per dieci minuti, poi se ne tornarono a casa mogi; ma alla loro mamma non dissero niente.
Passarono degli altri giorni. Una mattina mentre tornavano da scuola, il bambino, che si chiamava Nicola, lasciò la mano della sua sorellina davanti a un semaforo verde e le disse:
“Tu comincia ad attraversare; io devo tornare indietro a cercare il berretto che mi è caduto”.
La bambina attraversò, e si fermò dall’altra parte della strada ad aspettare il fratello. Passarono i minuti, passò mezz’ora e Nicola non si vedeva. La bambina incominciò a piangere. Un signore gentile si fermò e le chiese:
“Perché piangi, piccola? Come ti chiami?”
“Mi chiamo Cecilia,” disse lei, “e piango perché mio fratello è andato a cercare il suo berretto, mi ha lasciata qui e non è più tornato. Io sono piccola, non so la strada per tornare a casa, ci sono tanti semafori e non mi ricordo mai se si passa col rosso o col verde”.
Il signore gentile chiamò un vigile che accompagnò Cecilia a casa; per la seconda volta la mamma si agitò moltissimo, fece un mucchio di telefonate e andò alla polizia, ma di Nicola non si seppe più nulla. Cecilia era contentissima. Nicola le faceva sempre i dispetti, la faceva piangere e qualche volta le tirava delle sberle; e siccome lei era piccola, adesso la mamma la accompagnava tutti giorni a scuola e la andava anche a prendere.
Una mattina, mentre, seduta su una panchina dei giardinetti davanti alla scuola, aspettava la sua mamma che era in ritardo, Cecilia vide un bambino che assomigliava moltissimo a Nicola. Era un piccolo zingaro e il suo collo era così sporco che sembrava portasse una sciarpetta nera.
“Ti chiami Nicola?” gli chiese Cecilia.
“No di certo,” rispose lo zingarello, “mi chiamo Mirko, con la cappa, non so leggere né scrivere, non vado mai a scuola, rubo nei negozi e chiedo l’elemosina facendo finta di essere un bambino scappato di casa. E se la tua mamma non arriva presto a prenderti, ti rubo la cartella, ti strappo tutti i quaderni e poi vado a vendere i tuoi libri di scuola come carta straccia”.
Cecilia scoppiò immediatamente in lacrime; ma quando arrivò la mamma, non volle dire perché piangeva.
E adesso, bambini, – disse la nonna rivolgendosi ai nipotini che non avevano mai fiatato mentre lei parlava e alcuni dei quali avevano i lucciconi, – come la facciamo continuare questa storia? Facciamo scomparire anche Cecilia?
– No no, – gridò una bambina, la più piccola e la più bionda, – io lo so un bel modo di fare finire la storia. Cecilia, il suo papà e la sua mamma vanno a fare una gita. Partono con la macchina e si portano i panini, e la coca-cola per Cecilia. Papà e mamma si siedono davanti e lei dietro con le sue bambole. Vanno sull’autostrada e a un certo punto c’è un tunnel. La macchina entra nel tunnel col papà, la mamma, Cecilia, la coca-cola, i panini e le bambole, e non esce mai più dall’altra parte. E così la storia è finita.
– Sì, mi piace, – disse la nonna, – è un bel finale, ma ce n’è ancora un pezzo.
Intanto, il loro appartamento era rimasto chiuso. Sui mobili lucidi si depositava la polvere, sui pavimenti tirati a cera si formavano quei riccioletti contro cui la mamma di Cecilia aveva sempre combattuto vittoriosamente. Nei lavandini l’acqua sgocciolava formando delle macchie marroni che ammuffivano; e da sotto l’acquaio in cucina uscivano lunghe file nere e silenziose di scarafaggi. Le tapparelle rimanevano abbassate e dopo un po’ un gruppo di zingari che giravano nella zona si accorse che quell’appartamento era disabitato, così decisero di svaligiarlo.
Forzarono la serratura con un piede di porco, entrarono in due o tre e portarono via tutto quello che si poteva trasportare: la televisione, lo stereo, il computer, il Nintendo dei bambini, le catenine della prima comunione, la pelliccia della mamma e persino la macchina foto subacquea e la radiosveglia di papà. Con gli zingari c’era anche un bambino - e non vi dico che collo sporco aveva! - che aprì un armadio nell’entrata, e prese una racchetta da tennis, un pallone e uno skate-board.
Nessuno vide i ladri andarsene, e quando il portinaio si accorse della serratura scassinata, chiuse la porta con un po’ di scotch e non si preoccupò granché, tanto i padroni di casa non si erano più visti da molto tempo. Qualche giorno dopo, il ragazzino zingaro, facendo un giro con lo skate-board sul marciapiede attorno all’isolato, andò a sbattere contro una bambina con i capelli tutti ad aculei e gli orecchini di brillanti. La bambina riuscì a non cadere per miracolo e spalancò la bocca per piantare un urlo: ma quando vide in faccia il bambino, la richiuse in fretta per reprimere un sorriso. Poi, con una strizzatina d’occhio, corse a salutare un altro bambino che se ne stava seduto sul suo motorino fermo, poco lontano.
E questa volta la storia è finita per davvero.
Luchino, con gli occhi celesti gonfi per le lacrime trattenute, stringeva le labbra cercando di controllare il tremito del mento. Quando alla fine riuscì a parlare, protestò con grande energia:
– No, no e no! La storia non è finita per niente così! La macchina è entrata nel tunnel, e dentro era tutto buio ma si vedeva una luce in fondo. La macchina andava molto forte e così è uscita in fretta; la mamma si è girata per vedere se Cecilia stava bene, se non si era spaventata troppo per il buio. E ha visto che Cecilia aveva aperto la sua lattina di coca-cola, e stava bevendo; e vicino a lei c’erano seduti da una parte Mara, e dall’altra Nicola. L’autostrada era finita e c’era un prato bellissimo, hanno fatto merenda coi panini e poi sono tornati a casa; e non c’era nemmeno uno scarafaggio.
In quel momento arrivarono i genitori, e chiesero alla nonna:
– Sono stati buoni i bambini?
– Degli angeli, – rispose lei.
Finalmente si poterono aprire i pacchi e guardare i regali, poi tutti si sedettero a cena e i bambini fecero un gran casino e bevvero persino un po’ di spumante.
Quando fu l’ora di andare a dormire, tutti i nipotini andarono a dare un bacio alla nonna e a ringraziarla per la buona cena, i bei regali e la bella serata; ma Luchino voltò la faccia dall’altra parte e non la volle baciare. E quando fu sulla porta di casa con il cappotto addosso, pronto per uscire, si girò veloce e le tirò fuori la lingua.








2 commenti:

Massimo Citi ha detto...

Bel racconto. Penso che a tutti sia nato il desiderio di raccontare una storia perfida ai bambini. Comprensibilissima la spietata nonna ma ancora più comprensibile il piccolo Luchino. In fondo tutti vogliamo disperatamente sperare che il mondo sia migliore di come appare.

consolata ha detto...

Ci vorrebbe poco... ma io soprattutto voglio disperatamente che natale passi in fretta e senza troppi danni ;-) Smack e tanti auguri carissimi!