martedì 10 luglio 2012

Amor di sirena



     Questa storia – disse il capitano a riposo, seduto davanti a un bicchiere di grappa nel solito bar dove ogni sera si incontrava con i soliti compari dal passato avventuroso e dal presente opaco – non ve la posso dare per autentica, perché me l’ha raccontata più di cinquant’anni fa, quando ero agli inizi della carriera, un pescatore, cioè una persona per definizione poco attendibile. Non ci pensavo più da tantissimo tempo, e forse non ci avrei mai ripensato se il mio nipotino l’altra sera non mi avesse chiesto di leggergli una fiaba, La sirenetta di Andersen. Durante la lettura mi sono reso conto che quella storia la conoscevo già, forse non proprio uguale, ma la sostanza era la stessa. Mi è tornato in mente Nicola, il vecchio fanfarone dagli occhi celesti, morto da tanti anni che probabilmente sono l’unico a ricordare che sia mai esistito.
    Quando lo conobbi viveva nel paesino ligure dove era nato, rammendando reti e fumando la pipa sulla soglia di casa. Gli piaceva raccontare storie di pesche miracolose e di naufragi avventurosi, ma aveva trascorso la vita su pescherecci che si spingevano al massimo fino in Corsica, non amava i viaggi. Solo intorno ai vent’anni aveva passato un paio di stagioni lavorando alla pesca delle spugne su un peschereccio di Kalimnos. Un lavoro difficile e pericoloso. Le immersioni in profondità lasciano spesso infermità permanenti, tutte le giunture, soprattutto quelle delle gambe, possono rovinarsi. Ma lui se la cavò perché smise presto. Il motivo sta in questa storia.
    Una volta, mi disse, si trovava a pescare nelle vicinanze di un’isoletta disabitata, all’estremo sud del Dodecaneso, in vista della costa turca. Diversamente dalla maggioranza degli uomini di mare non aveva paura dell’acqua, e nelle ore libere dalle sue attività di palombaro gli piaceva prendere a prestito una barchetta a remi e andare a nuotare nelle acque calde e chiarissime che circondavano il roccione inospitale, arcigno in mezzo al mare, ingentilito solo dalle luci rosate dell’alba o violette del tramonto.
    Ma un giorno, remando per farne il periplo, Nicola si accorse che su uno scoglio a strapiombo c’era un albero. Un pino abbarbicato alla pietra, le radici affondate in un centimetro cubo di terra. Si avvicinò per osservare quel solitario miracolo della natura, e vide che nello scoglio si apriva una caverna, una grotta marina dall’imbocco perfettamente arcuato, larga abbastanza da poterci entrare lui e la sua barca, azzurra e verde per i raggi del sole che la illuminavano di sbieco.
    Lenti, silenziosi, i remi lo trasportarono nella magica penombra. Sul fondo riluceva una spiaggetta di ciottoli. Nicola scese a riva e tirò in secco la barca. L’acqua fredda, immobile, si frangeva senza rumore. Si sdraiò sulla ghiaia umida e rimase lì per un po’ nella buia freschezza della grotta, a fumare e riposarsi dalla luce eccessiva che c’era fuori, sul mare aperto.
    D’un tratto il silenzio fu interrotto da uno sciacquio gentile, l’acqua ferma si agitò un poco e dalla trasparenza quasi nera emerse una bellissima e terribile creatura marina che si trascinò sulla spiaggia. Una sirena, una femmina giovane e tenera come un agnello fino alla vita, con lunghi capelli verdi come l’acqua quando è verde, la bocca pallida e rotonda, luminosa di conchiglia, braccia gracili, seni volti all’insù da adolescente, una vita così sottile da commuovere. Dove cominciano i fianchi, una coda di pesce azzurra e squamosa batteva piano l’acqua, a esprimere il suo stupore per la visita inaspettata.
    Non appena si riprese, Nicola, in considerazione del luogo, le rivolse la parola in greco. Ma quella sirena non parlava greco. Dalla sua bocca vennero suoni gorgoglianti, tremuli, diciamo pure liquidi, incomprensibili e privi di articolazione. Gli fu subito chiaro che comunicare a parole era impossibile. Non si perse d’animo, pensò le ragazze sono uguali dappertutto, sulla terraferma o sott’acqua e trovò una comunicazione di altro genere. La sirena, nuova all’esperienza, priva di inibizioni e sfrenatamente curiosa, rispose con entusiasmo. Iniziò quindi un dialogo in cui mani e bocca avevano la stessa importanza e funzione di avvicinamento, spiegazione, conoscenza. Il silenzio nella grotta era interrotto solo dallo sciabordio delle onde che si frangevano piano sulla spiaggia e dei corpi che rotolavano lentamente dentro e fuori dall’acqua.
    Il piacere di questo contatto fu presto guastato, per Nicola, da una scoperta amara. Dalla vita in giù la sirena era proprio fatta come un pesce. In qualche modo si riproducono anche le sirene, ma certo non somiglia a quello umano. In una parola, per le due creature allacciate sui freddi ciottoli della grotta verdeazzurra era impossibile giungere a una naturale (almeno per Nicola) conclusione di quegli appassionati abbracciamenti. Tuttavia, dopo la prima bruciante delusione seguita dall’affannosa ricerca di una via che permettesse – diciamo così – una più intima comunicazione, i due trovarono molte gradevoli maniere di dimostrarsi reciproco interesse e curiosità.
    Quando fu l’ora di ritornare ai suoi doveri, Nicola lasciò la sirena, ma finché la barca da pesca rimase nei pressi dell’isola, tornò alla grotta tutti i giorni. Malgrado tutto, l’attrazione che la stravagante creatura esercitava su di lui era tale che decise di passare in sua compagnia i prossimi giorni di riposo cui aveva diritto.
    Non aveva rinunciato a escogitare una maniera di comunicare con lei che non fosse esclusivamente il contatto fisico. L’impresa sembrava disperata, finché non trovò uno stratagemma. Per spiegarle la sua stupefatta delusione nel trovarla sprovvista dell’umana porta dell’amore, disegnò sulla parete della grotta una figura femminile a grandezza quasi naturale, molto particolareggiata, soprattutto nella parte di cui la sirena era mancante. La disegnò di faccia, di profilo, di schiena, e benché non fosse mai stato un pittore, il disegno gli venne proprio bene, chiaro, realistico, dotato di una certa malinconica grazia legata al desiderio irrealizzabile che evocava. Si era anche sforzato di disegnare alcuni aspetti della vita terrestre, case, strade, piante e animali, ma la sirena non sembrava capirli né apprezzarli (Nicola ammetteva che questi gli erano venuti meno bene). Tranne qualche sbuffo di disgusto e battito di coda davanti alla raffigurazione di una nave, dedicava tutta la sua rapita, instancabile attenzione alla donna che campeggiava sulla parete illuminata dai raggi del sole al tramonto. Anche lei cercò di fare dei disegni sulla roccia col pezzo di carbone che Nicola aveva portato a questo scopo. Ma erano fluidi, confusi, come coperti da un velo d’acqua che impediva al mio amico di capirne il significato.
    Al momento della partenza Nicola andò a dirle addio, e segnò sulla roccia tante lineette quanti erano i giorni che pensava di dover trascorrere lontano. Cercò di spiegarle che dopo altrettanti giri di sole sarebbe stato di ritorno, e gli parve che lei capisse. Portato a termine il suo impegno con i pescatori di Kalimnos, affittò una barca, comprò provviste sufficienti per qualche settimana, e a forza di remi e di vela giunse in vista del roccione, qualche giorno più tardi di quanto aveva previsto.
    Rivide la spiaggetta dove aveva l’abitudine di bagnarsi, l’unico albero, e infine l’antro marino teatro dei suoi amori. Remando affannato per l’eccitazione e il desiderio di ritrovare la creatura che vi abitava, entrò nell’ombra fredda della grotta.
    Un forte odore di pesce marcio lo colpì, riempiendolo di disgusto e insieme di timore. Avanzò fino al fondo, gelato da un presentimento. I segni fatti sulla parete per indicare i giorni dell’attesa erano stati cancellati accuratamente uno per uno, non con un tratto di carbone, ma lavati via con acqua di mare, e la sirena giaceva sui ciottoli asciutti, morta, con la coda immersa nell’acqua, che fluttuava appena al movimento causato dalla barca. Era lei che emanava l’odore disgustoso.
    Ma quanto più lo colpì la ferita profonda e verticale con cui, usando un aguzzo pezzo di roccia corallina raccattato chissà dove sul fondo del mare, si era squarciata il suo ventre di pesce, in una grottesca imitazione del disegno che campeggiava nero sulla roccia bianca ancora in ombra! Intorno alla ferita che ne aveva causato la morte, la sirena aveva sistemato un orticello verde e gocciolante di quelle alghe che ricordano un po’ la lattuga, ricciute e fresche, tanto simili ai suoi bei capelli sempre umidi. Il disegno di Nicola non era a colori, e la povera creatura si era ispirata per analogia alla propria capigliatura per imitare la ferita ricciuta che le mancava e Nicola sembrava desiderare tanto.
    Il mio amico, sconvolto da quella testimonianza d’amore muto e generoso, si fece forza, spinse in mare il cadavere della sua amante incompleta perché avesse una sepoltura adatta alla sua natura, e infine, gettatole un ultimo sguardo attraverso l’acqua verde della grotta, remò lontano, poi alzò la vela e partì per tornarsene alla sua Liguria. Ma da quel giorno come ogni buon marinaio si guardò bene dal nuotare, e soprattutto evitò come la peste le isolette disabitate.

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