domenica 11 dicembre 2011

Alina Bronsky, I piatti più piccanti della cucina tatara

Finalmente un romanzo esilarante e appassionante, di quelli che non riesci a mollare un po’ perché vuoi vedere quello che succede nella pagina dopo, un po’ perché staccarsi dalla protagonista è un dispiacere. Vi sono narrate con grande leggerezza e senza mai cadere nel grottesco vicende anche turpi e dolorose, fa ridere, molto, e poi pensare. Non leggete la quarta di copertina, è sviante. La voce narrante, nell’efficacissima traduzione dal tedesco di Monica Pesetti, è quella di Rosalinda detta Rosa, donna di origine tatara che vive nell’Unione Sovietica senza vantarsi delle proprie radici etniche, anzi. Parla russo perfettamente, è bellissima e ha classe da vendere, sa sempre che cosa fare e soprattutto quello che devono fare gli altri. Tutte queste notizie ovviamente le veniamo a sapere da lei, che di tutto può essere accusata tranne di avere dubbi su alcunché. Ha un marito, Kalganov, anche lui tataro russizzato, di cui non tiene alcun conto; una figlia diciassettenne, Sulfja, brutta, sbilenca e tonta. Quando la figlia scopre di essere incinta, secondo sua madre può avere concepito solo in sogno, e Sulfia che è molto conciliante concorda. Nasce una bambina, Aminat, di cui Rosa si impossessa immediatamente. Di qui in poi si dipana una vicenda di cui non svelo troppo perché, come ho già detto, il lettore è acchiappato anche dalla certezza che, pagina dopo pagina, incontrerà continue sorprese. Rosa è una voce narrante di granitica sicurezza e totale inaffidabilità. La vita è dura nel 1978 in una cittadina sovietica di provincia, ma lei sa, senz’ombra di dubbio, di conoscere i suoi famigliari meglio di come si conoscono loro stessi, di essere in grado di manovrarne i destini risolvendo qualsiasi situazione e trovando una soluzione per qualsiasi problema: infine, di avere un gusto infallibile. Così dirige la povera Sulfia come una barchetta in acque agitate conducendola attraverso matrimoni, divorzi e gravidanze, tutti finalizzati a dare una vita migliore alla nipote Aminat, da cui si aspetta moltissimo, in primo luogo la bellezza e l’intelligenza della nonna. Quando le cose non vanno come vorrebbe lei non si ferma davanti a niente. La fine dell’URSS porta miseria e instabilità sociale, ma Rosa riesce a manipolare anche Dieter, un inquietante tedesco che invita le tre donne in Germania, dove la sua instancabile lotta continua adattandosi alla nuova situazione. I disastri che causa non la toccano, non li vede, e bisogna dire che la stessa autrice è vittima del fascino del suo personaggio e le fornisce fino all’ultimo opportunità un po’ fiabesche.
Il piacere di questa lettura deriva in primo luogo dalla ricostruzione dei fatti che si opera nella nostra mente, nel confronto tra il punto di vista di Rosa e il nostro, tra il suo pensiero positivo privo di debolezze e le macerie dei suoi rapporti affettivi, poi dall’ammirazione sconfinata che questo personaggio suscita (è difficile continuare a tenere gli occhi aperti senza soccombere alla sua energia, alle sue convinzioni prive di dubbi, al suo coraggio, alla sua capacità di risorgere dopo ogni batosta), infine dalla ricostruzione dall’interno della vita negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, dei mille stratagemmi e delle mille strategie di sopravvivenza messi in atto dagli strenui abitanti. Il tono è sempre oggettivo, non concede nulla all’introspezione, la narrazione procede a passo di carica come la vita di Rosa. Tutto il romanzo è disseminato di piccole osservazioni, particolari, parole sfuggite alla protagonista quasi per caso, che ne disegnano l’umanità con una perizia e un’efficacia davvero stupefacenti, di modo che alla fine le perdoniamo tutti i difetti (e non sono pochi né veniali) che ha. Al suo confronto gli altri personaggi, l’apparentemente mite e impotente Sulfja (una gran bella figura in verità, che appare in filigrana nel monologo materno), la povera Aminat che paga più di tutti la volontà di potenza della nonna, Kalganov che trova tardi una soluzione per salvarsi, il viscido Dieter, Michail Rosenbaum e i suoi genitori, l’inglese John a metà tra Babbo Natale e un angelo custode, impallidiscono, ma il loro spessore risalta proprio dalla distorsione delle parole di Rosa.
Alina Bronsky è nata nel 1978 in Ucraina e vive in Germania. Certamente leggerò La vendetta di Sasha, il suo debutto letterario pubblicato nel 2010 da e/o. 

2 commenti:

Massimo Citi ha detto...

È possibile essere abbastanza soddisfatti di sé, in questi casi, nevvero? Un abbraccione.

consolata ha detto...

Puoi ben dirlo! infatti ti avrei scritto per ringraziarti del consiglio azzeccatissimo. Un'invidia questa Alina, così giovane e capace di una performance davvero notevole (la voce in superficie, la storia al di sotto), e di finezze quasi commoventi pur essendo sempre divertente.
Grazie al migliore libraio che conosco. E uno smack sonoro all'amico.